BarLume, Marco Malvaldi: «Delitti e dialetti, i miei anziani sono esilaranti. La serie tv? Ormai non mi riguarda più»

Marco Malvaldi: «Delitti e dialetti, i miei anziani sono esilaranti. La serie tv? Ormai non mi riguarda più»
di Riccardo De Palo
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giovedì 28 settembre 2023, 06:17
«La serie tv? È diventata una farsa più che un giallo, ma ormai non mi riguarda più, è liberamente tratta dai miei romanzi». Marco Malvaldi, autore dei romanzi della saga dei vecchietti del BarLume, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, in occasione dell'uscita del nono libro della serie, anche questo ispirato a un gioco: La morra cinese (Sellerio, come tutti gli altri). «Potrebbero decidere di trasporre anche questo per la tv, ormai i diritti dei libri sono stati ceduti. Ma forse questa storia è troppo difficile per il piccolo schermo, troppo complicata per loro».
Il romanzo muove le mosse da un delitto: uno studente viene trovato morto sotto il balcone della casa comunale, ed è evidente che non si è spinto da solo nel vuoto. Si è ispirato a uno dei tanti casi reali del genere?
«No, non c'era alcun riferimento voluto. Nessun anarchico è stato buttato dalla finestra. Mi serviva, semplicemente, un cadavere da far trovare sotto un balcone».
E i vecchietti, va da sé, cominciano a indagare
«Sì, e il barista Massimo non li considera, come spesso capita. C'è un terreno, il Bosco Torto, che una holding vorrebbe comprare, ma potrebbe esserci un problema. E da qui partono i vecchietti, che finiscono in un ginepraio legislativo e amministrativo».
Un ginepraio chiamato "usi civici", è così?
«Esatto, ai vecchietti viene in mente quel diritto che permette ai cittadini di cogliere i frutti non coltivati della terra, oppure far pascolare le proprie beste sui terreni di un nobile. Quando, molti anni dopo, questi terreni vengono acquistati dai comuni, l'uso civico permane e c'è una legislazione piuttosto perversa, in materia. È qui che scatta la morra cinese... Io ho visto comuni perdere cause per gli usi civici e venire condannati a risarcimenti milionari, e parliamo di comuni con cinquemila abitanti, che non li hanno cinque milioni in cassa. E quindi, per dare soddisfazione a un'associazione di cittadini, si fa un danno a tutti gli altri. Chi ha ragione in quel caso?»
Lei si sente più un giallista o un umorista?
«Io mi reputo fondamentalmente un umorista, il giallo è soltanto un meccanismo che serve per far interagire i personaggi. E che funziona anche piuttosto bene, perché uno non si aspetta di ridere in situazioni del genere. E invece, si può ridere della morte, perché è un qualcosa che riguarda tutti e quindi abbiamo tutti il diritto di esorcizzarla».
A quali autori si ispira?
«A me piacciono tantissimo i gialli su Nero Wolfe, perché sono quelli in cui è nato l'investigatore collettivo. C'è Nero Wolfe che ragiona, Archie Goodwin che racconta, e ci sono tutti gli altri che indagano. Poi tento di copiare i grandi umoristi inglesi, P.G. Wodehouse, Jerome K. Jerome, Douglas Adams Tre uomini in barca è un libro che funziona ancora oggi. Insomma, mi sento anglobecero. E non dimentichiamo Stefano Benni, il genio assoluto della letteratura umoristica italiana».
Perché ora lo stiamo dimenticando?
«Forse gli ultimi libri non sono belli come i primi, il che è fisiologico. Ma uno che si è inventato la Luisona, oppure l'astronave a forma di Topolino che cerca una nuova Terra, Il bar sotto il mare, con il paese di Sompazzo è un genio, punto. Altre parole sono di troppo. Mio figlio ha 14 anni e ride su un suo libro di 50 anni fa. Non è mica da tutti».
Per lei il dialetto è sempre fondamentale, vero?
«E infatti mi stavo scordando il Maestro. Giorgio Marchetti, alias Ettore Borzacchini, l'autore del Borzacchini universale, Dizionario ragionato della lingua livornese ad uso delle persone colte e dei pisani. Il dialetto è come un algoritmo di compressione, ti permette di dire in due parole un concetto che altrimenti richiederebbe alcune frasi».
Per esempio?
«Penso a quando si dice a qualcuno che è in ritardo "che fai, aspetti la banda?" il che significa non solo che è in ritardo ma anche che è la tipica persona che si muove solo quando sono arrivati tutti. È un archetipo di persona che arriva dopo apposta, perché deve essere l'ultima. In livornese, quando uno si trova in una rissa e viene preso a cazzotti da ogni parte si dice che le ha prese a rondemà: deriva da round a man, era l'ordine che dava la military police americana durante la guerra. Quando c'era una persona particolarmente molesta e magari ubriaca, allora la military police la circondava, e giù botte. Quando le hai prese a rondemà vuol dire che ti hanno circondato in nove e te le hanno date di santa ragione. È un modo di esprimersi molto rapido ed efficace. Pensi al napoletano trammamuro per dire ascensore. Sono invenzioni linguistiche che servono spesso per non perdere tempo, spiegano un archetipo in una parola».
Nel suo romanzo c'è anche un "libro nel libro", ce ne vuole parlare?
«Sì Massimo legge un libro in cui una persona fa una proposta provocatoria, e cioè di votare per chi si vuole e anche per chi non si vuole, per evitare che le persone le sparino sempre più grosse per essere prescelte. Ma anche quel meccanismo di voto ha dei problemi...»
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