Paolo Pombeni
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Macron da Xi / I negoziati di pace che richiedono più coesione

di Paolo Pombeni
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Mercoledì 12 Aprile 2023, 00:04

Come spiegare la posizione di Macron dopo la sua visita a Pechino al netto delle rettifiche e spiegazioni di ruotine che puntualmente sono arrivate a fronte delle reazioni? La vicenda è complessa, i ruoli e gli interessi sono molteplici, per cui bisogna evitare di frullare tutto in una salsa indigesta. Ciò non significa però evitare di mettere in fila le tessere del puzzle.
Innanzitutto Macron è un leader politico in crisi di consensi nel suo Paese mentre ha sempre avuto l’ambizione di passare alla storia come un grande statista. La crisi ucraina è un ovvio banco di prova e c’è consapevolezza che chi riuscisse ad avere un ruolo determinante nella sua soluzione riceverebbe un’indubbia legittimazione come figura importante nel panorama internazionale. È stata ricordata la vicenda di De Gaulle che ha qualcosa da insegnare al riguardo.
Non c’è dubbio che se l’attuale presidente francese potesse accreditarsi come colui che ha dato quantomeno un contributo importante allo sblocco della vicenda ucraina ne guadagnerebbe sia sul piano interno che su quello europeo. 
Non dimentichiamo che anche in Francia l’anno prossimo ci saranno le elezioni per il rinnovo del parlamento europeo: Macron guida un partito (Renew Europe) che non può permettersi un flop di consensi e al tempo stesso deve sperare in una presenza in quella sede che non lo marginalizzi definitivamente vista la prospettata alleanza fra i popolari e i conservatori e lo scarso appeal di una sua adesione al gruppo dei socialisti e democratici.
Per ottenere uno sblocco del conflitto fra Mosca e Kiev il presidente francese può scommettere solo su un decisivo intervento da parte di Pechino. I russi non hanno nessuna intenzione di negoziare (dovrebbero ammettere il fallimento dei loro piani) e gli americani non vedono male il protrarsi di una guerra di logoramento che tiene in stallo sia il potenziale ex sovietico, ora nazionalista slavo, sia un’Europa che non è veramente decisa a ricollocarsi nel contesto di una nuova guerra fra imperi.
La conseguenza è che Macron si offre come sponda, sia pure cauta e limitata, al disegno cinese: fermi Pechino la guerra insensata di Putin e otterrà un rallentamento e raffreddamento dell’alleanza militare occidentale e uno sguardo europeo non ostile alle volontà espansive dell’antico dragone.
A Parigi si valuta probabilmente che la Francia abbia qualche buona carta da giocare. È l’unica potenza atomica del fronte Ue e la sola a sedere nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e questo grazie all’insipienza britannica che ha voluto uscire dall’Unione per fare la spalla degli Usa, ma senza potersi veramente tirare dietro l’Europa (prima della Brexit anche Londra era nella Ue come potenza atomica e come membro in posizione chiave all’Onu).
Che la mossa di Macron non sia da sottovalutare lo conferma Mosca che si è affrettata a dichiarare che la Francia non può ricoprire il ruolo di mediatore nel conflitto russo-ucraino: una affermazione di cui non si vedrebbe la necessità se le profferte dell’Eliseo verso Xi Jinping non avessero qualche possibilità di solleticarne l’interesse. Questo naturalmente non significa affatto che l’operazione ardita che sembra imbastire il presidente francese abbia già conseguito un risultato.
I cinesi sono negoziatori abili e pazienti ed hanno in questo momento interessi divergenti: da un lato anche a loro non dispiace una guerra di logoramento che di fatto è fra le due superpotenze della vecchia guerra fredda; dall’altro non vedono bene gli sconquassi sul fronte delle relazioni economiche che questo conflitto sta comportando. L’impressione è che al momento Pechino stia sfruttando a proprio favore tutte le aperture che da più parti si tentano nei suoi confronti senza decidere ancora da che parte schierarsi davvero.
Macron deve però anche tenere conto di non essere l’unico protagonista capace di menare il gioco. Gli americani non hanno intenzione di uscire dalla guerra in corso come gli ennesimi sconfitti dopo il Vietnam e l’Afghanistan, per non dire del caos mediorientale e in parte mediterraneo. L’Eliseo sembra essersene reso conto e si è affrettato a ribadire che con Washington e con la Nato ci sono saldi rapporti perché quello è il suo campo di schieramento. 
Nella stessa Unione Europea non è che ci sia questa gran voglia di riconoscere a Parigi un ruolo di primo della classe, se non proprio di guida. La Germania ha i suoi problemi, il suo confine con l’Est Europa esiste ed è sensibile. La stessa Italia non avrebbe da guadagnare molto a diventare il supporter di Macron, il cui futuro non è poi certo sarà così brillante.
Negli equilibri del futuro parlamento post elezioni del 2024 tutto è in questione e prevedere come andrà nelle urne con i tempi che corrono di fluidità elettorale è difficile, ma ancor più è rischioso impostare già adesso strategie su quelle incerte previsioni. Tutto ciò non smentisce che la ricerca di una via d’uscita dal conflitto in corso sul territorio europeo sia un’impresa benemerita che deve godere di tutto il supporto possibile.
È però necessario che sia un’impresa collettiva della Ue evitando fughe in solitaria che diventano dannose per due ragioni. La prima è che nessuno stato europeo ha oggi un peso sufficiente per condizionare da solo l’evoluzione del conflitto. La seconda è che questi scatti in avanti servono più che altro ad indebolire la coesione fra i membri della Ue, cioè ritardano la formazione di quel soggetto collettivo e solidale che potrebbe agire da attore determinante nel ridisegno della geografia politica internazionale.
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