Alessandro Campi
​Alessandro Campi

La politica si divide/ Le proteste contadine che parlano del futuro

di ​Alessandro Campi
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Lunedì 5 Febbraio 2024, 00:06
Le rivolte contadine sono state una costante nella storia europea. Scatenate da un profondo malessere sociale, spesso in coincidenza con fasi di forte accelerazione storica e di grandi ansie collettive, hanno assunto la forma di una protesta contro il potere del momento quasi sempre violenta e rabbiosa.
Nelle sue odierne manifestazioni – con i trattori al posto dei forconi – inevitabilmente risvegliano memorie, nonché preoccupazioni e paure, antiche. Esattamente come è accaduto con la pandemia, è il passato, rimosso dalla coscienza delle élite e delle masse per eccesso di ottimismo storico, che ritorna in modo solo all’apparenza inaspettato.
Le molle o motivazioni di queste rivolte sono le medesime da secoli: l’esosità fiscale dei governi; il crollo dei prezzi agricoli che minaccia la sopravvivenza dei lavoratori condannandoli un tempo alla fame e all’indigenza, oggi alla povertà e al fallimento; i costi eccessivi delle materie prime che si mangiano la redditività delle produzioni. 
Ci si ribella, ieri come oggi, quando come lavoratore singolo e come realtà sociale ed economica ci si sente abbandonati e marginalizzati. Non si ottengono sostegni economici, sussidi e protezione pubblica per fronteggiare gli effetti di una qualche calamità naturale o le importazioni di prodotti agricoli da concorrenti esteri sleali e troppo aggressivi. Si teme altresì di restare spiazzati da un progresso tecnico troppo veloce.
Dall’impotenza e dalla solitudine nasce la rabbia.
Oggi, rispetto al passato, c’è però qualche motivo di disagio in più. Nell’era dell’economia immateriale, della comunicazione digitale e delle relazioni sociali virtuali il carattere tellurico, primario in senso fisico, duramente materiale del lavoro agricolo appare qualcosa di anacronistico, una sopravvivenza del passato. Nell’epoca del nomadismo globale e della fluidità come condizione esistenziale obbligata l’attaccamento al suolo appare sinistro e sospetto. Nella migliore delle ipotesi, un nostalgismo patetico che impedisce di comprendere il mondo reale e di adattarsi ad esso. Ci si sente trattati come una specie condannata all’estinzione.
Rispetto al passato, nel frattempo sono anche cambiati la visione del lavoro e il valore sociale annesso a quest’ultimo. Quello agricolo, anche quando ipertecnologizzato, ne riflette per definizione un’idea intrisa di fatica fisica, sacrifici personali, rinunce e rischi. Nulla a che vedere con la mitologia odierna del lavoro flessibile, domestico o da remoto, che sfrutta la conoscenza e destina la manualità alle macchine, orientato a valorizzare la creatività individuale e non a soddisfare necessità collettive. 
Chi oggi meritoriamente lo riscopre, il giovane in polemica con la società consumistica o la manager stanca della snervante routine metropolitana, spesso lo fa in una chiave idealizzante, bucolica pubblicitaria e da turista in cerca di emozioni: l’amore per la natura, la vita all’aria aperta, il contatto con gli animali, i buoni sapori di una volta dissociati però dal sudore, dai cattivi odori e dai risvegli quotidiani all’alba. 
In passato le rivolte contadine venivano represse nel sangue, domate dal paternalismo dei signori o lasciate sfogare in attesa che si esaurisse il furore che le aveva determinate. Oggi, come ci mostra la cronaca di questi giorni, si pone il problema di come gestirle nella cornice del pluralismo democratico e di società in corso di radicale trasformazione. Avendo altresì chiaro che non sono lo scoppio egoistico di una categoria che chiede privilegi che non merita, ma un campanello d’allarme sul domani che ci aspetta. 
Schematicamente, si può dire che esse sono in questo momento una tentazione elettorale per le destre conservatrici, nazionaliste e populiste, una sfida sociale per il popolarismo cristiano-moderato, un incubo culturale che ritorna per la sinistra storica.
La prima, cresciuta in questi anni cavalcando ogni forma di ansia o protesta collettiva (dal risentimento antipolitico contro la casta ai timori causati dall’immigrazione clandestina, per finire con i malumori contro gli obblighi vaccinali durante la pandemia), potrebbe vedere negli agricoltori in piazza e in cerca di rappresentanza politica una ghiotta occasione propagandistica.
Ma queste destre, come nel caso dell’Italia, sono oggi al governo: debbono dunque scegliere tra demagogia e responsabilità, tra risposte innovative e strutturali su un’esigenza che è la più antica e vitale del mondo (cosa e come produrre per garantire a tutti il fabbisogno nutrizionale quotidiano) e logiche opportunistiche di scambio elettoralistico. Avendo chiaro che la sovranità alimentare, giustamente invocata come programma da perseguire, non significa autarchia agricola o lotta ideologica contro il progresso tecnologico applicato alla terra. 
Il popolarismo ha invece un problema di consenso e di autorappresentazione. Da quando esso ha preso ad inclinare verso l’efficientismo burocratico e un pragmatismo senza più ancoraggi dottrinari, avendo altresì sposato le forme più mainstream del post-modernismo culturale, con la cultura dell’individualismo al posto del comunitarismo e con il dominio delle élite di partito urbanizzate a danno delle vecchie dirigenze più legate ai territori, s’è creata una distanza crescente con un blocco sociale che in passato era stato la sua più grande riserva valoriale ed elettorale.
Quanto alla sinistra, non ha mai considerato contadini e coltivatori una classe universale – come l’operaio ieri o l’immigrato oggi – alla quale affidare un qualunque disegno di emancipazione sociale. Per essa sono un gruppo ribelle, non rivoluzionario. Per ciò che rappresentano, l’attaccamento alla tradizione e ai ritmi naturali, la difesa della proprietà famigliare, una visione scettico-deterministica della società e dalla storia, sono la negazione dell’idea di progresso. Per la sinistra, anch’essa trasformatasi in individualista e cosmopolita, le rivolte contadine odierne sono solo un sintomo del più generale ritorno di un’onda politica reazionaria e regressiva.
Qualche comprensione per chi protesta scaricando letame dinnanzi alle sedi commerciali delle grandi multinazionali dell’agroalimentare è arrivato solo dalla sinistra anti-globalista, anti-industrialista ed ecologista, ma con un fondo ideologico di diffidenza duro a morire: agricoltori e allevatori, infatti, sfruttano pur sempre una natura che gli ambientalisti ortodossi e dogmatici vorrebbero ripristinare nella sua integrità, liberandola dunque dal fattore umano che è il vero motore dell’inquinamento. 
Il problema, in realtà, va oltre le singole famiglie politiche europee e il loro diverso modo di atteggiarsi dinnanzi a quest’improvviso ritorno di ribellismo contadino. Riguarda l’Unione europea nel suo complesso, il modello dirigista di governo che la caratterizza e le scelte strategiche che ha fatto negli ultimi anni. Secondo una metodologia che – come nel caso della “transizione verde” – comincia a somigliare un po’ troppo a quella, tragicamente fallimentare, che fu tipica del socialismo reale: la ragione astratta che costruisce la realtà per via burocratica, la pianificazione dall’alto che si impone sulla dialettica delle forze sociali, il disegno di un mondo migliore da perseguire a tappe forzate senza curarsi degli eventuali costi umani e sociali.
Le rivolte contadine, nella forma spettacolizzata adatta alla società della comunicazione istantanea, vengono da un passato che avevamo dimenticato. Mai come adesso hanno però a che fare con un futuro che fatichiamo a immaginare a misura delle nostre reali necessità e possibilità e che nessuno può pretendere di costruire al posto nostro.
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