Alessandro Campi
Alessandro Campi

I problemi reali/ Le difficoltà in Europa e la stabilità italiana

di Alessandro Campi
6 Minuti di Lettura
Lunedì 15 Gennaio 2024, 00:07

Domani pomeriggio a Strasburgo, in apertura dell’assemblea plenaria del Parlamento europeo, si svolgerà un dibattito sul riemergere del neofascismo nei Paesi dell’Unione a partire dal caso italiano (i saluti romani alla commemorazione della strage di Acca Larentia): è l’inizio ufficiale della campagna elettorale in vista del prossimo giugno travestito, ancora una volta, da spavento collettivo per le sorti della democrazia.
L’ultima discussione del genere, sempre sul pericolo di una crescente normalizzazione del fascismo, sui rischi del razzismo e della xenofobia, sulla necessità di mettere fuori legge i gruppi neofascisti e neonazisti, si è svolta nell’ottobre del 2008, anche in quel caso pochi mesi prima di andare al voto. All’epoca fu almeno votata una prolissa risoluzione, stavolta non è previsto alcun documento o votazione.

Ogni cinque anni torna dunque il pericolo dell’onda nera – nazionalista, populista, fascista: tutto si equivale – che puntualmente (e fortunosamente) non arriva. Gli elettori sanno come scegliere anche senza gli avvertimenti e le istruzioni per l‘uso di Bruxelles. Senza contare che i pericoli e le minacce che si materializzano sono poi sempre altri, mai previsti da chi dovrebbe farlo per mestiere, come si è visto prima con la pandemia e poi con la guerra. Intendiamoci, l’estremismo di destra è un fenomeno realmente diffuso su scala transnazionale, ma meno omogeneo di quanto si pensi visto che le sue matrici, a parità di simbolismi e parole d’ordine utilizzate, sono molto condizionate dalle differenti storie nazionali. Parliamo in ogni caso di gruppi marginali, la cui forza politica e capacità d’attrazione sembra direttamente legata all’eco mediatica abnorme che viene assegnata alle gesta dei loro militanti. Il caso di scuola è propria la liturgia marziale inscenata a Roma da duecento attivisti di Casa Pound che certo non speravano di finire sulla stampa internazionale.

Pare sfuggire a molti la differenza tra la necessaria vigilanza culturale a difesa dei valori di libertà, l’azione repressiva della violenza alla quale nessuno Stato europeo ha mai rinunciato sinora contro i suoi potenziali nemici interni (neofascisti e neonazisti inclusi) e l’allarmismo per ragioni di propaganda o come frutto di un riflesso ideologico pavloviano che a sinistra continua a essere fortissimo. Ciò non toglie che l’Unione europea stia vivendo un momento difficile. Non è tanto la preoccupazione per il risultato del voto (secondo tutti i sondaggi non ci saranno grandi sconquassi elettorali, al massimo un allargamento dell’attuale maggioranza sino a comprendere i partiti conservatori), quanto il timore, diffuso a Bruxelles come in molte cancellerie, per l’inaridirsi della sua spinta politico-progettuale e per la sua difficoltà ad agire da protagonista in uno scenario globale sempre più caotico e conflittuale.

Con queste ansie il neofascismo risorgente c’entra davvero poco. In questo momento storico, gli europeisti in buona fede dovrebbero temere molto di più, ad esempio, la debolezza politica, per ragioni tutte interne, di Francia e Germania, i due Paesi storicamente trainanti del progetto d’integrazione europea. Uno scenario per molti versi inedito che potrebbe, esso sì, riverberarsi negativamente sulle politiche europee del futuro.
La Francia macroniana viene da anni di scontri sociali causati da un crescente disagio economico e dal timore, diffuso negli strati popolari e nella piccolo-media borghesia, di vedere intaccati i servizi e le prestazioni di uno Stato sociale storicamente assai generoso (si è visto con la battaglia durata mesi sulla riforma delle pensioni).
Parigi è ormai una capitale totalmente scollegata, socialmente ma anche sentimentalmente, dalle aree interne. Nel Paesi ci sono problemi enormi nella gestione, anche in termini di ordine pubblico, delle sue sterminate periferie urbane. Si fatica inoltre a integrare i cittadini (soprattutto giovani) di fede o origine musulmana, di cui si teme, visto anche il quadro internazionale, la radicalizzazione ideologica e la possibile deriva violenta se non terroristica in senso proprio.

Negli ultimi due-tre anni in Francia sembra venuta meno persino la storica eccezione in politica estera, a conferma di una crisi che tocca ormai sia l’autopercezione dei suoi gruppi dirigenti sia la tenuta del suo regime presidenziale, reso sempre meno stabile dall’implosione delle tradizionali famiglie politiche e dalla conseguente disarticolazione del suo sistema partitico.

Nei giorni scorsi Macron, debole nei sondaggi col suo non-partito personale, ha tentato la mossa del cavallo: ha scelto come primo ministro, e suo potenziale successore all’Eliseo, il giovane Gabriel Attal e spostato verso destra l’asse del governo imbarcando un’antica collaboratrice di Nicolas Sarkozy, col quale sta puntando a un’alleanza de facto. L’obiettivo dovrebbe essere quello di togliere voti alla destra lepenista, che i sondaggi vedono ancora al primo posto (28%) seguita dalla sinistra nazional-populista di Mélenchon (24%).

Ma secondo molti osservatori questa svolta giovanilista, conservatrice e muscolare (ad esempio sul tema dell’immigrazione) potrebbe non bastare. Né a rialzare in Francia le sorti di un centro liberal-riformista di estrazione urbana e alto-borghese che fatica a comprendere le radici del disagio popolare, né a rilanciare il progetto europeo da affidare, nell’idea di Macron e del suo nuovo delfino, alla guida di una figura estranea ai tradizionali equilibri politici come Mario Draghi. In entrambi i contesti, attraverso scelte di stampo elitario e tecnocratico si rischia solo di alimentare l’antipolitica populista. Quanto alla Germania a guida socialdemocratica, le cose non vanno meglio. La crisi del mercato dell’auto, l’aumento dei costi energetici e la contrazione della domanda globale causata dalla crescente instabilità internazionale l’hanno spinta nel 2023 sull’orlo di una recessione che ha messo in crisi tutte le altre economie europee. Nel frattempo si è scoperta vittima del suo stesso rigorismo fiscale. Da un lato, dopo tre decenni di strette sui bilanci statali e di riduzioni negli investimenti pubblici, ha scoperto di avere un sistema infrastrutturale sempre più obsoleto. Dall’altro, per aggirare il dogma del pareggio di bilancio, l’attuale governo si è visto costretto a un trucco contabile – dirottare fuori bilancio sulla transizione climatica e l’industria i fondi non spesi per l’emergenza pandemica – subito stoppato dalla Corte costituzionale.

Ne è derivato un buco nelle finanze di 60 miliardi per colmare il quale non si è trovato di meglio che ridurre la spesa pubblica e aumentare gli introiti attraverso nuove tasse. La conseguenza è che anche la Germania, come la Francia, ha dovuto fare i conti con la forza dello scontento sociale: dai coltivatori infuriati per i tagli delle sovvenzioni al settore agricolo agli autotrasportatori che protestano contro l’aumento dei pedaggi stradali, per finire coi macchinisti delle ferrovie che chiedono aumenti di salario e la riduzione dell’orario di lavoro.
Senza contare le pesanti crepe che già si intravvedono all’interno di un sistema dei partiti tradizionalmente solido e stabile. Sahra Wagenknecht, storica paladina dell’estrema sinistra, ha appena fondato un nuovo partito che porta il suo nome e che come obiettivo ha quello di raccogliere voti in modo trasversale cavalcando posizioni di conservatorismo culturale e progressismo economico. Su immigrazioni, vaccini, cambiamento climatico e sostegno all’Ucraina ha una piattaforma molto simile a quella della destra radicale di Alternative für Deutschland, alla quale potrebbe togliere voti. Anche se la vera paura di tutti è che finisca per sottrarre consensi soprattutto ai partiti tradizionali, che nei suoi comizi e interventi televisivi noi smette di attaccare come i veri responsabili del declino socio-economico tedesco.

Insomma, i due grandi Stati motore dell’Europa, a circa sei mesi dal voto, sono entrambi alle prese con forti divisioni interne, con un clima sociale dominato dalla rabbia e dal risentimento e con una crescente frammentazione politico-partitica. A confronto, l’Italia – con le sue infuocate discussioni sulla Meloni e la Schlein capolista alle europee per i rispettivi partiti e con le polemiche furibonde tra alleati nel centrodestra sui nomi dei futuri candidati-governatori delle Regioni – sembrerebbe persino un’oasi di invidiabile stabilità.

© RIPRODUZIONE RISERVATA