Alessandro Campi
Alessandro Campi

Duelli mediatici/ Le strategie della politica lontane dalla vita reale

di Alessandro Campi
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Lunedì 29 Gennaio 2024, 00:02

La lotta politica, quando mancano le idee o se ne hanno poche e sbagliate, si risolve inevitabilmente in un corpo e corpo violento anche se ai nostri giorni, per fortuna, non più sanguinoso. Diventa uno scontro tra bande per vincere il quale, più del voto degli elettori sui programmi di governo dei partiti, risulta decisivo, se l’obiettivo è danneggiare l’avversario o eliminarlo dalla scena, il ricorso a ogni possibile mezzo o strumento: dall’accusa più infamante alla menzogna deliberata, entrambe confezionate come verità credibili, dall’insulto allo sberleffo, dalla costruzione di un falso stato di allarme al diversivo propagandistico.

L’Italia odierna, mentre è appena iniziata la campagna elettorale che ci condurrà al voto europeo, offre un vasto campionario di queste tecniche politico-giornalistiche (ricordiamolo: politica e giornalismo in questo Paese vanno storicamente a braccetto), la cui elencazione sommaria può risultare, se non istruttiva sotto forma di pubblica denuncia, almeno divertente sul piano del racconto. Partiamo da quella più utilizzata a sinistra: la “reductio ad hitlerum”. E’ una strategia retorico-polemica alla quale essa ricorre soprattutto quando è in crisi di consensi. Dovrebbe servire, nelle intenzioni, a dare la sveglia ai propri militanti, a convincersi di essere sempre dalla parte giusta della storia e a gettare un discredito permanente sui propri competitori. Funziona così, semplicemente: si prendono le posizioni degli avversari di destra, su qualunque argomento, e le si presenta come la continuazione, appena occultata da un velo di parole presentabili e di perbenismo esibito in pubblico, di quelle proprie dei totalitarismi di destra. Con quel che ne consegue in termini di allarme collettivo: violenza potenziale, razzismo latente, autoritarismo sempre in agguato, volontà di discriminazione appena repressa, ecc.

E’ una tecnica di denuncia che non si basa sull’esibizione di prove, che spesso mancano o sono inesistenti, quanto sull’allusione maliziosa, sull’insinuazione ad arte, sulla creazione di suggestioni simboliche mediaticamente efficaci e di parentele ideologiche forzate, sulla costruzione di nessi e intrecci tali da produrre legami plausibili tra il passato e il presente, sull’evocazione di un pericolo politico immediato spacciato per lezione della storia. Talvolta, come si sa, basta anche una frase estrapolata da un discorso.
Molto impiegato è anche l’espediente, strettamente legato al primo, che definiremo del “non è mai abbastanza”. Ovvero, “gli esami non finiscono mai”, ammesso che in politica esistano da una parte maestri saggi e preparati e dall’altra allievi indisciplinati e somari. Esso consiste nel tenere inchiodato un partito o un leader al suo passato (remoto, spesso solo supposto) dicendogli che ogni tentativo fatto per emanciparsene, o ogni cambiamento di idee e comportamenti nel frattempo realizzato, non è sufficiente ad acquisire il bollino di “vero democratico”.

Con la destra negli ultimi trent’anni ha funzionato così. Devi condannare il totalitarismo. Fatto. Non basta. Devi ripudiare il fascismo. Fatto. Non basta. Devi riconoscerti nella Costituzione. Fatto. Non basta. Devi denunciare pubblicamente le leggi razziali e ogni forma di antisemitismo. Fatto. Non basta. Devi dirti antifascista. Fatto. Non basta. E così via all’infinito. Un’altra tecnica molto usata è quella che gli inglesi definiscono “character assassination”. Non puoi sconfiggere alle urne questo o quel partito come forza politica organizzata? Bene, prendine il leader, oppure un singolo esponente o simpatizzante, che abbia ovviamente un ruolo pubblico o una discreta visibilità, e comincia ad azzannarlo ai polpacci e ai fianchi, fallo oggetto di una campagna di discredito ben orchestrata magari a partire da una battuta, una foto o un fatto di cronaca ingigantito e deformato ad arte.
Offrine dunque un ritratto che lo renda, al tempo stesso, una persona pericolosa e un personaggio ridicolo, raccontane vizi privati (anche se immaginari) e debolezze in pubblico, se non ha detto niente di compromettente nelle ultime settimane tira fuori dagli archivi la frase sconveniente o irrituale detta dodici anni prima, metti insieme fatti noti e qualche notiziola maliziosa, dà l’impressione di esserti basato su una fonte anonima autorevole, la tua deve infatti sembrare un’inchiesta giornalistica non un’esecuzione mediatica a comando, condisci il tutto con una scrittura per quanto possibile elegante e/o accattivante, insisti e insisti ancora anche a sprezzo delle regole del vivere civile e della deontologia, e il gioco è fatto: l’avversario alla fine andrà con la faccia nella polvere.

Non ucciso, ma infangato nella reputazione.

Questa tecnica in realtà è in sé politicamente trasversale. Se oggi in Italia la usa soprattutto la sinistra contro i suoi avversari di destra è perché la prima, dopo un anno dalla sconfitta alle elezioni, ancora non si capacita di come sia possibile che, avendole appunto perse, non si trovi egualmente al governo com’era sua abitudine. Quando la destra era all’opposizione, beninteso la usava anch’essa senza troppi scrupoli.
Ma veniamo appunto alla destra, che in questo gioco al massacro politico basato non sul confronto tra posizioni, ma sui diversivi, sulle cortine fumogene e sulla guerriglia delle parole dispone anch’essa delle sue tecniche. Molto utilizzata è quella del “tirare la palla in tribuna”. Altrimenti definibile come “il mito del Grande Burattinaio”. Funziona così. Quando non sai bene cosa dire o cosa fare, prenditela con i fantasmi. La gente oggi crede a tutto, soprattutto a ciò che non vede. E ha paura di tutto, soprattutto di ciò che non conosce e non capisce. Ergo, diventa facile indirizzarne le ansie verso bersagli remoti o immaginari. La retorica sui “poteri forti” o sullo “stato profondo”, che in un mondo caotico e fuori controllo ha indubbiamente una sua forza esplicativa, altrimenti i populisti non prenderebbero tanti voti, ne è un buon esempio.

E’ una tecnica al tempo stesso polarizzante e deresponsabilizzante. Invocando l’azione di forze oscure da un lato ci si compatta con poco sforzo nella lotta contro un Grande Nemico, dall’altro ci si convince che se le cose vanno male la colpa non è né dei cittadini né di chi li governa, ma di qualche entità remota e nascosta.
Molto diffusa a destra è poi la strategia del “vittimismo patologico”, detta anche “sindrome di Calimero”. Hai vinto le elezioni, godi di un’ampia maggioranza parlamentare, hai nelle tue mani le leve del comando democratico, devi solo decidere come utilizzarle, ma vuoi dare a credere che tutto il mondo ce l’abbia con te, di essere bersagliato dalla sfortuna, di dover continuamente sopportare ingiustizie e prevaricazioni, di essere solo contro tutti, circondato da comunisti impenitenti. La verità è che se ti senti sempre a disagio nei rapporti con il prossimo è solo perché non riesci a crescere.

Atteggiamento psico-politico che trova un pendant a sinistra in quella che può definirsi la “lamentazione a pancia piena”. Quella tecnica che a Napoli chiamano simpaticamente del “chiagni e fotti”. Le polemiche di questi giorni da sinistra contro le pretese contro-egemoniche della destra rientrano in questa tipologia. Hai dieci cucuzze, le hai da decenni, e se adesso ne devi dare tre o quattro agli altri partecipanti al gioco cominci a gridare che ti stanno portando via l’intero cucuzzaro. Sono due forme di lagnanza politica eguali e contrarie. La destra, rimasta un po’ infantile, fa la vittima perché non riesce a esercitare al meglio il potere che possiede. La sinistra, dove comandano sempre i vecchi marpioni, fa la vittima perché le viene democraticamente tolto un po’ dell’immenso potere che ha lungamente accumulato. Si potrebbe continuare, ma gli esempi addotti di come oggi, in modo assai maldestro, si conduca la lotta politica in Italia dovrebbero essere sufficienti. Se sarà così sino al prossimo giugno, ci si può stupire se ancora meno gente andrà a votare?

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