Alessandro Campi
Alessandro Campi

I fantasmi del passato che inquinano la politica

di Alessandro Campi
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Lunedì 22 Gennaio 2024, 00:51

L’appuntamento organizzato a Gubbio dal Partito democratico ha creato grande clamore mediatico e qualche polemica tra il divertente e il velenoso nel segno di un ipocrita spirito pauperistico, ma quali effetti o risultati politici?
Soprattutto: è servito al partito, non certo a risolvere, ma almeno ad affrontare i suoi problemi relativi alla leadership, alla linea politica e a un consenso elettorale che, stando ai sondaggi, non si riesce a incrementare?

Nel suo discorso ai parlamentari le parole di Elly Schlein che più hanno colpito sono state quelle su Israele. Ha messo in guardia l’Italia dal fornire armi che potrebbero essere usate per compiere “crimini di guerra” contro i palestinesi. Errore doppio. Primo, l’Italia non vende o fornisce armi ai paesi in guerra senza avallo parlamentare. Secondo, la criminalizzazione pregiudiziale di Israele non favorisce la pace, semmai alimenta l’antisemitismo latente di una certa sinistra terzomondista e anti-imperialista: pendant ideologico perfetto di quello radicato nella destra radicale anche se non è piacevole sentirselo dire. Ma le sue parole sull’argomento sono parse intempestive se non superficiali, al punto da creare grande malumore all’interno del suo stesso partito, per altri tre motivi. Innanzitutto, esse rendono potenzialmente inaffidabile il Pd come forza di governo in una fase del mondo segnata da una pericolosa instabilità geopolitica, tale da non giustificare tentennamenti, ambiguità o oscillazioni riguardo il proprio posizionamento internazionale. I riformisti ne sono consapevoli, la Schlein e il suo cerchio magico evidentemente no.
Qual è la visione di politica estera del “campo largo” Pd-M5S-Sinistra radicale, nel caso dovesse crearsi organicamente una simile alleanza in vista delle prossime elezioni politiche? I dubbi che per anni (giustamente) sono stati sollevati nei confronti del fronte populista, accusato di mettere in discussione lo storico euro-atlantismo italiano e di coltivare amicizie internazionali eccentriche se non pericolose, ironicamente si possono oggi rivolgere anche alla sinistra. 
Ci si chiede poi, visto che dietro il pacifismo-neutralismo della Schlein qualcuno ha intravisto un astuto calcolo elettorale, quanto quest’ultimo sia fondato. Ci sono in effetti pezzi non trascurabili dell’opinione pubblica e del mondo giornalistico-culturale italiani che giudicano un errore il sostegno politico-militare dell’Italia all’Ucraina e considerano Israele una potenza sciovinista e imperialista da portare alla sbarra e isolare a livello diplomatico, ma essi sono già stati ampiamente colonizzati dalla propaganda di Conte e del M5S. 

Infine, quando si è un leader politico, bisognerebbe sempre tenere conto, non solo della possibile ricaduta pratica delle parole che si pronunciano, ma anche del contesto generale (cronaca inclusa) nel quale esse si inseriscono. Dopo che la Schlein ha denunciato i “crimini umanitari” perpetrati da Israele c’è stata a Vicenza, ad opera dei centri sociali, la contestazione violenza contro gli espositori israeliani presenti alla fiera dell’oreficeria. Se non c’è, evidentemente, alcuna connessione tra il dire (proprio) e il fare (altrui), ci sono però un clima e uno stato d’animo – nel segno di un equivoco e strumentale antisionismo fatto passare per difesa dei diritti dei popoli oppressi – che si dovrebbe avere l‘accortezza di non alimentare anche solo involontariamente.
Non solo, ma visto che a ogni pie’ sospinto si accusa la destra istituzionale di mantenere un’ambigua contiguità col mondo del neo-fascismo militante, viene facile chiedere alla sinistra istituzionale, ancora una volta sul filo dell’ironia, un’analoga intransigenza nei confronti della galassia attivistica e barricadiera che si muove alla sua periferia. 

Ma nel suo intervento a Gubbio Elly Schlein ha giocato anche un’altra carta polemica, evidentemente considerata di grande valore sul piano politico-propagandistico: la denuncia della deriva autoritaria della democrazia italiana, la tendenza ossessiva della destra a voler mettere le mani sulla televisione, sulla stampa e sulla cultura.

Roma come Budapest, secondo il suo slogan. Una strategia militare di occupazione del potere che, a leggere certi giornali d’area, sembra produrre un martire della libertà di pensiero al giorno. La cosa, se da un lato fa un po’ sorridere, visto che i martiri in questione spesso non sono altro che storici esponenti dell’establishment culturale italiano ai quali semplicemente non è stato rinnovato o concesso l’incarico al quale aspiravano per chiudere in bellezza la loro carriera, dall’altro aiuta a capire quello che è forse il principale fattore di crisi e smarrimento del Pd odierno: il suo inedito ruolo di partito d’opposizione per volontà degli elettori. 

Partito-stato, europeista a prescindere, interlocutore privilegiato delle tecnostrutture ministeriali, del settore economico pubblico e della grande industria privata, l’unico accreditato o ritenuto affidabile presso le cancellerie internazionali il Pd era diventato, nell’autorappresentazione del suo gruppo dirigente l’asse intorno al quale il sistema politico e di potere italiano era costretto a ruotare sine die, in mancanza di alternative ritenute accettabili o plausibili. La forzata (in realtà fisiologica e perfettamente democratica) lontananza dalla stanza dei bottoni, iniziata col voto del 25 settembre 2023, ha così ingenerato nel Pd uno psicodramma collettivo la cui traduzione nel dibattito pubblico è l’idea che quella oggi alla guida dell’Italia sia una destra sostanzialmente illegittima e priva di titolo, una forza d’occupazione aliena nei confronti della quale – più di quanto non sia accaduto ai tempi del berlusconismo – si è chiamati a una eroica resistenza. Con quel che ne segue. Da un lato, quotidiani appelli a difesa della democrazia, lo spettro del fascismo che ritorna continuamente evocato, la denuncia di un incombente pericolo autoritario se, per esempio, al Teatro di Roma viene nominato un direttore considerato estraneo alla propria tribù ideologica. Una drammatizzazione della lotta politica che sinora ha prodotto molti titoli di prima pagina, molti dibattiti nei talk show, ma nessuno spostamento negli orientamenti di voto.

Dall’altro la difficoltà a trovare temi di battaglia innovativi e temi programmatici qualificanti, apprezzati come tali dagli elettori, che non siano, per l’appunto, l’usato sicuro dell’antifascismo, il piagnisteo travestito da vittimismo e da pubblica indignazione sul potere usurpato dai nuovi barbari, il riflesso pavloviano ideologico a schierarsi sempre con i nemici dell’Occidente e dei suoi valori e, per finire, la solita pretesa di voler costruire un mondo nuovo e perfetto (un tempo lo società senza classi, oggi l’arcadia ecologista post-industriale) già tante volte frustrata dalla storia.
L’Italia, si è detto tante volte, ha bisogno di una destra normale, libera dai fantasmi del passato, pragmatica realista e dialogante, occidentalista senza equivoci, che combatte avversarsi e non nemici assoluti. Ma anche una sinistra con le stesse caratteristiche francamente non sarebbe male. 

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