Alessandro Campi
​Alessandro Campi

I volti della politica/ I caratteri monarchici nelle moderne democrazie

di ​Alessandro Campi
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Lunedì 12 Febbraio 2024, 00:22

A ogni morte di re – sovrano in carica come nel caso di Elisabetta II, legittimo erede di un casato senza più trono come nel caso di Vittorio Emanuele di Savoia – si torna a interrogarsi sul significato della monarchia. Letteralmente, il governo, reale o simbolico, di uno. Sono una trentina le monarchie che ancora sopravvivono nel mondo: dodici, tra regni principati e granducati, nella sola Europa.
Ci si chiede, col disincanto misto a leggerezza tipico della post-modernità, cos’è quest’idea di un potere che invece di essere astratto, razionale e impersonale, espressione di soggetti collettivi come lo stato, la nazione, il popolo o il parlamento, secondo il nostro modo di concepirlo in una chiave laica, pragmatica e pienamente desacralizzata, in certe realtà continua invece a manifestarsi in una forma personale e diretta, fisica e tangibile. E a esprimersi attraverso cerimoniali, simbolismi e liturgie parareligiose che hanno al centro un singolo individuo, uomo o donna, ammantato di una speciale aura.
Come considerare dunque la monarchia al giorno d’oggi: un anacronismo storico-giuridico come tale destinato a scomparire, una sopravvivenza coreografica del passato buona sola ad alimentare il turismo dei Paesi che ne hanno una e i pettegolezzi della stampa popolare specializzata in saghe dinastiche o una forma politico-simbolica che può ancora avere una qualche funzione sociale e utilità istituzionale?

Come dimostra l’Europa contemporanea, dipende dalla storia delle singole nazioni. In certi contesti, dalla Gran Bretagna alla Svezia, dal Belgio alla Danimarca, dalla Norvegia ai Paesi Bassi, monarchie più o meno antiche hanno saputo adattarsi funzionalmente alle trasformazioni politiche, ai cambi anche traumatici di scenario storico e alle modificazioni del costume collettivo.
Sono sopravvissute all’avvento prima del costituzionalismo liberale, poi della democrazia basata sulla sovranità popolare, divenendo, proprio grazie al formalismo e alle ritualità che ne scandiscono ogni procedura e attività pubblica, un fattore di stabilità istituzionale, coesione sociale interna e continuità storico-identitaria al di là delle divisioni ideologiche tra partiti e delle congiunture sociali critiche.
In altri casi, come quello più recente e per molti versi eccentrico della Spagna, la restaurata monarchia spagnola ha svolto invece un ruolo fondamentale nell’instaurazione stessa della democrazia pluralistica dopo la lunga parentesi della dittatura militare franchista, avvenuta senza alcun trauma dal punto di vista sociale e politico-costituzionale, nonostante la perdurante memoria della guerra civile, proprio grazie al ruolo pacificatore e di garanzia svolto dalla corona.

In tutti questi casi, il sovrano che un tempo traeva la sua legittimità dal diritto tradizionale, da un passato mitizzato, dal sangue o da una qualche forma di investitura religiosa, oggi la deriva solo dal suo ruolo di rappresentante super partes dell’unità dello stato, avendo nel frattempo rinunciato a qualunque funzione di governo e alla gran parte delle sue antiche prerogative.
Quelle europee odierne sono dunque “monarchie democratiche”. Rispettate dalla maggioranza dei cittadini, ma criticarle non è più lesa maestà. Non hanno un potere politico di decisione, ma mantengono un grande potere di influenza. Le loro spese di mantenimento le paga la fiscalità generale facendo attenzione a non sprecare troppi soldi. Quanto ai membri delle case regnanti, si sono giocoforza imborghesiti (nelle abitudini di vita, nelle scelte di lavoro), ma mantengono ancora molto del loro antico prestigio sociale anche in tempi di egalitarismo spinto.

La storia di altri stati europei, come è noto, ha avuto un corso differente. Molti di loro si sono liberati delle rispettive case regnanti con tempi differenti e modalità sempre traumatiche. La Francia ha inaugurato la modernità politica proprio tagliando la testa ai re e inventandosi una nuova formula di legittimazione del potere basata sulla rappresentanza nazionale. La monarchia russa nel 1917 è stata travolta dalla rivoluzione bolscevica. Quelle tedesca e austro-ungarica non sono sopravvissute alla sconfitta nella Prima guerra mondiale. La monarchia greca è stata deposta nel 1967 da un colpo di stato militare.
Quella italiana, cui pure si deve la nascita dello Stato nazionale unitario, ha pagato le sue colpe successive al Risorgimento – l’appoggio al fascismo e alle leggi anti-ebraiche, la guerra, l’abbandono degli italiani al loro destino dopo la caduta del regime mussoliniano – con il referendum costituzionale del 2 giugno 1946, che ha fatto nascere l’attuale repubblica e messo al bando i Savoia.

Ma, ecco il punto, l’ombra lunga del principio monarchico e della regalità come metafora dell’ordine sociale, che sono cosa diversa dalla monarchia come istituto storico, non ha mai smesso di proiettarsi sulla vita dei regimi democratici nati dalla dissoluzione di regni e strutture imperiali. Lo si vede oggi da almeno tre elementi, che sono divenuti sempre più caratterizzanti delle democrazie contemporanee.
Il primo riguarda la tendenza crescente a personificare (e concentrare) il potere al vertice della piramide politica, creandogli intorno una dimensione di intangibilità ed esclusività che molto ricorda le antiche monarchie (del presidente della repubblica francese si dice, ad esempio, che per poteri e fasti è un sovrano eletto dal popolo).

In democrazia il potere è formalmente di tutti, nasce dal basso ed è distribuito orizzontalmente tra i diversi attori sociali attraverso lo strumento periodico del voto. Nei fatti in molti contesti è divenuto una pertinenza sempre più esclusiva di oligarchie e gruppi ristretti che tendono a perpetuarlo e a utilizzarlo secondo i propri fini.

Il secondo elemento è la necessità per le democrazie, col crescere del pluralismo interno e della conflittualità sociale, di disporre di uno spazio politico-simbolico sottratto alla lotta tra partiti e alle dispute ideologiche, percepito come autorevole e super parte dai cittadini, in grado di garantire l’unità e la stabilità del corpo politico, dotato di un suo apparato anche simbolico-coreografico esclusivo. Le democrazie che non hanno un simile centro di potere sono oggi quelle più a rischio di dissoluzione interna (da questo punto di vista l’Italia, con la figura del Presidente che siede al Quirinale, è un Paese per molti versi fortunato).
La terza tendenza, un vero e proprio ritorno all’antico, è quella al dinasticismo politico. Con la crisi dei partiti e delle ideologie l’affiliazione politica passa sempre più attraverso legami di fedeltà personale e famigliare. Nelle democrazie contemporanee è sempre più forte la tendenza a coinvolgere parenti e membri del proprio clan nella gestione del potere o a trasmettere le cariche pubbliche secondo vincoli parentali.
Personalizzazione del comando, bisogno di istituzioni politiche neutrali e di garanzia, ritorno ai legami politici basati sul sangue e sulla clientela. Accanto alle monarchie democratiche, abbiamo oggi – anche se sembra un gioco di parole – repubbliche o democrazie sempre più monarchiche, nelle forme e nelle prassi. Se non è una vendetta della storia, è una trasformazione della scena politica contemporanea ironica e paradossale, con la quale sempre più dovremo fare i conti.

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