L'editor non mangia i bambini: sfatiamo un luogo comune

L'editor non mangia i bambini: sfatiamo un luogo comune
di Luca Ricci
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Sabato 9 Novembre 2013, 07:31 - Ultimo aggiornamento: 16:14
Sfatiamo un luogo comune duro a morire: l’editor, quella figura editoriale che cerniera tra testo provvisorio e testo definitivo, non mangia i bambini.

Al contrario, se fa bene il suo lavoro, diventa uno strumento prezioso per lo scrittore, perché aiuta a oggettivare il testo, offre un punto di vista realmente esterno al processo creativo (so cosa staranno pensando in molti e la risposta è no: il partner, la mamma, l’amico del cuore, per quanto inflessibili, non sono lo stesso). La figura dell’editor si porta dietro un concetto che in linea di massima approvo: un testo è sempre migliorabile, e da un certo punto in poi ci si può lavorare anche in squadra. Dio ci salvi dagli scrittori che considerano le loro parole scolpite sulle tavole della Legge. Anche perché l’editor non è una sorta di corruttore in grado di cambiare la natura dei libri che gli capitano sotto tiro, magari per assecondare i biechi scopi mercantili dell’editore.



Questa è una leggenda metropolitana al pari degli alligatori nelle fogne di New York. Per farsi un’idea del lavoro di un editor, quando ancora venivano chiamati redattori editoriali, si può leggere “Incontri con uomini di qualità” (Il Saggiatore, pag. 392, € 23,00) dove Guido Davico Bonino racconta i suoi primi anni all’Einaudi. All’inizio affianca Calvino all’ufficio stampa (è costretto a rivedere un risvolto di copertina anche per tredici volte), e poi si adopera in altre varie mansioni tutte riconducibili al lavoro con gli autori. Tra i vari aneddoti, deliziosa la partita a ping pong con Henry Miller che sucita le ire di Giulio Einaudi (perché Miller perde e se la prende). Ma il volume è soprattutto il ritratto di un professionista che, con scrupolo, si mette al servizio dei testi altrui. Come Davico Bonino disse di Calvino ma in fondo di se stesso: “Aveva il culto della letteratura come impegno radicale: un culto che per lui (profondamente laico, anche se rispettoso dei credenti) si traduceva in un caparbio e appartato, sofferto eppure silenzioso sacerdozio della scrittura. Non ho conosciuto altri che come lui considerasse la scrittura il Principio e la Fine, il Tutto insomma dell’esperienza”.



Non credo che il mercato editoriale sia neutrale (come potrebbe, visto che l’intera filiera è dominata da pochi soggetti in perenne conflitto d’interessi?), ma lasciate lavorare in pace gli editor. E tanti auguri all’Einaudi, che proprio in questi giorni compie ottant’anni.

Twitter: @LuRicci74
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