Rugby Side
di Paolo Ricci Bitti

Campagnaro e l'album delle figurine Addio a Piero Rinaldi

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Lunedì 3 Febbraio 2014, 01:56
L'urlo di Georges Coste rimbombò negli spogliatoi a un paio d'ore dall'inizio del test match Australia-Italia a Brisbane, 18 giugno 1994. Il ct era appena entrato trovandosi di fronte a uno spettacolo orribile: tutti gli azzurri, e parliamo di tipi come Massimo Giovanelli, i fratelli Cuttitta, Franco “Kino” Properzi, erano in silenzio, assorti nella lettura di un agile volumetto. Che cosa aveva rapito l'attenzione di quella dotta congrega di intellettuali? Il manuale delle “giocate” e delle strategie architettate dallo stesso allenatore? No.
Un catalogo delle bellezze delle spiagge della Golden Coast australiana (e non parliamo di panorami)? Neppure.


I suoi colossi stavano in realtà sfogliando il programma di presentazione del match, quello in cui vengono pubblicati anche i volti dei giocatori. E che volti! In quell'Australia c'erano Campese, Lynagh, Eales, Kearns e  gli altri Wallabies che tre anni prima erano diventati campioni del mondo. Dei del rugby. E appunto di lì a poco gli azzurri avrebbero giocato per la prima volta contro queste celebrità, un filino più affascinanti dei soliti spagnoli, romeni e francesi, di seconda scelta, che allora passava il convento in quegli anni in cui l'ingresso dell'Italia nel Sei Nazioni non si poteva nemmeno sognare.

“Guardate – ululò furibondo Coste battendo sul pavimento i suoi spaventosi sandali intrecciati abbinati ai calzini corti - che prima ancora di ammirare questi assi dovete provare a batterli, guardate che se anche sono campioni del mondo voi avete la forza e l'intelligenza per sorprenderli, guardate che dovete lottare alla morte per metterli sotto. Gettate subito via quei programmi”.
Beh, finì 23-20 con sua maestà Australia salvata da una clamorosa sconfitta solo dalle amnesie, certo involontarie, dell'arbitro. Da quella partita memorabile è nata l'Italia che poi nel 1997 batterà la Francia, quella vera, a Grenoble, fino a meritare l'invito al Sei Nazioni.

Pensavo a quella scena ieri a Cardiff quando guardavo Michele Campagnaro, 20 anni, mettersi la cuffia dell'Ipod e salire tranquillo e rilassato sul torpedone dell'Italia: quando Georges Coste sbroccò con gli azzurri a Brisbane, lui barcollava avventurandosi nei primi passi e invece adesso aveva stampato due mete in faccia al Galles, al Millennium, ed era anche stato eletto Mvp dai giornalisti gallesi. Stessa serenità negli occhi di Tommaso Allan e Angelo Esposito, altri due ventenni, e di Sarto, un anno in più.
Chi segue il rugby da prima della loro nascita avrebbe strafirmato, alla vigilia, per il 23-15 con cui questa batteria di ventenni debuttanti nel Torneo ha messo paura ai campioni in carica, favoriti dai pronostici per un comodo successo con almeno 20 punti di scarto. Invece questi ragazzi, semmai, rimpiangevano di avere gettato l'occasione di battere i gallesi a casa loro, impresa che non ci è mai riuscita.

Questi ventenni non si fanno più brillare gli occhi davanti al volto incorniciato di campioni stellari come Halfpenny o North riportati sui programmi. No, loro vanno in campo e quei campioni li tirano giù a randellate o li beffano intercettando i loro passaggi. Questi ventenni sono cresciuti che il Sei Nazioni era già un fatto acquisito, naturale, puntuale da celebrare ogni anno. E all'Olimpico di Roma in festa. Campagnaro, Allan, Esposito e Sarto erano bambini quando in tv guardavano e sognavano Parisse, i fratelli Bergamasco, Lo Cicero e non i talenti francesi e inglesi come facevamo noi che abbiamo inciso dentro l'anima la voce di Paolo Rosi.

Campagnaro, Allan, Esposito e Sarto sono cresciuti, sono diventati rugbysti professionisti e non hanno alcuna voglia di accontentarsi di esserci, nel Torneo, delle onorevoli sconfitte, delle uscite a testa alta dallo stadio. Ogni settimana giocano con le franchigie di Treviso e di Parma contro i grandi club nelle coppe europee, poi a febbraio e marzo, ogni anno, si vestono e si vestiranno d’azzurro per il Sei Nazioni per affrontare senza complessi gli assi che i loro predecessori veneravano  sull’album delle figurine.

ADDIO PIERO
Ha passato la palla Piero Rinaldi, 65 anni, padovano: le sue foto, e ricordo in particolare quelle in bianco e nero, ti fanno fermare il respiro  come quando Campagnaro vola in meta. Conosceva profondamente il mondo del  rugby, anche se nel suo smisurato archivio c'è tutta l'Italia degli ultimi 40 anni, e con i suoi scatti mettava a nudo l'anima di questo gioco, che in campo ci fossero gli All Blacks o l'ultima squadra di serie C. Gli devo molta compagnia dai Mondiali del 1991 in poi, da quel primo pellegrinaggio a Rugby, al collegio dove tutto è nato, e anche molta emozione per i suoi racconti, davanti a una birra, sull'ambiente padovano, a cominciare dal XV della Colonna. Piero, in fatto di sigarette, non si era mai fatto sconti e negli ultimi tempi la sua voce al telefono metteva i brividi, ma lui faceva finta di niente, preferiva raccontarti il suo ultimo scatto. Come dicono i gallesi, caro Piero, ne avrai da fare, di belle foto anche dove ti trovi adesso.
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