Nella casa discografica in cui tutto iniziò, arrivò con Gianni Boncompagni. «Aveva un’energia singolare e ci capimmo al volo. Mi trascinò di corsa...
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Come ha fatto a non caderci ?
«Liberandomi di qualche zavorra. Quando la mongolfiera non ce la fa più a sollevarsi, lasci a terra un po’ di roba. Io ho gettato ricordi, amarezze, sbandamenti, errori che non ho più necessità di tenere con me».
E chi è rimasto con lei?
«Il mio propellente. Gli amici che ho ancora, le contaminazioni che mi hanno reso più ricco, i passi che ho fatto con le mie gambe, da Via Fontebuono a oggi».
Suo padre faceva il poliziotto.
«Undicesimo figlio di una stirpe di pastori marchigiani. Nell’allontanarlo dal centro storico gli avevano assicurato che emigrare da Via di Ripetta alla Montagnola significasse il progresso. Che al posto del cesso sul ballatoio, avrebbe trovato una casa tutta nuova con tanto di bagno».
E la Montagnola che cos’era?
«Campagna aperta con palazzi e gru. C’era una febbre prospera allora, anche in periferia».
Oggi?
«Roma ha perso la sue caratteristiche più importanti: incontro e dialogo. I rioni erano dei fortini, la gente vigilava, i mascalzoni, prima che compromettessero gli equilibri, erano espulsi da sentinelle senza divisa: i cittadini».
Che cittadino era Renato Zero?
«Uno che ai detrattori porgeva una rosa e che cercava di farsi capire anche da chi lo disprezzava. Un incosciente. Un imprudente che tacitava paura, imbarazzi, incertezze e difficoltà con la sfrontatezza di chi affrontava i nemici sorprendendoli: a chi mi insultava, rispondevo spiazzando: “Che vi ha fatto di male, Renatino vostro? Sono solo stravagante, ma l’ossigeno non ve lo tolgo mica”. Quelli si stupivano, si incuriosivano e magari invece di rifiutarti, compravano il tuo disco. Sono stato sempre un aggregatore».
E cos’altro?
«La bandiera di una Repubblica indipendente che ha aiutato le persone ad avere coraggio e a pronunciare una parola che negli anni 70 era proibita: individualismo».
Lei odia le classificazioni.
«Mi hanno sempre fatto orrore e con Zerovskij lo ribadisco: non siamo rock, punk né pop. Siamo tutte queste cose insieme».
Come si proietta sui 67 anni.
«Con grande leggerezza. Nonostante le cadute o i segni sulla pelle, posso dirmi felice. E anche se non possono parlare, sono felici anche le suole delle scarpe che hanno camminato insieme a me».
Ricordi dei primi concerti?
«Giravo con un vecchio Ford Transit che avevo chiamato Orazio e tra benzina e costumi facevo miracoli di equilibrismo con il budget. Alla fine, prosaicamente, molto incideva la conta degli spettatori. Controllare che l’impresario non ti fottesse era basilare. Se il piatto è misero, anche le briciole fanno numero».
Impresari ne ha visti.
«Anche Elio Gigante, lo storico di Mina. Ma per quanto fossero bravi e attenti, c’erano artisti che addomesticabili proprio non erano» .
Nomi?
«Mina e Celentano ad esempio, anche se per loro il viaggio era di prima classe, mentre io ero stipato in terza, nel vagone dei militari, in un ordine di grandezza in cui allargarsi era sconsigliabile».
Non addomesticabile era lei.
«Io, sia detto senza presunzione, più di tutti. La mia presenza era scomoda. I dirigenti musicali me lo dicevano chiaramente: “Non ci creare problemi, noi stiamo dietro la scrivania a non fare un cazzo e ci sta benissimo così”».
Non rassicurava, Zero.
«Avevano Morandi- persona e artista eccellente per carità- ma Gianni era così per bene, con la cravattina, con il vestitino buono e io quei requisiti non ce li avevo. Provocavo imbarazzo, inquietavo, io».
Se guarda a ieri cosa vede?
«Tanta di quella vita che a volte conviverci è ingombrante. Ho accolto tutti però. Il mio letto è diventato Piazza del Popolo, il mio dormire somiglia a quello di Gulliver e la mia vita si è trasformata in un grande albergo: ai concerti entrano bambini e vecchi, ma non è poi così brutto sentirsi un Grand Hotel».
Non è faticoso l’andirivieni?
«Hai 60 anni ma è come se ne avessi 120. Bisogna stare attenti e avere equilibrio, altrimenti la depressione ti porta a ballare con lei».
Lei è stato depresso?
«Ho avuto attacchi di panico e li ho superati. Non si finisce mai di conoscere se stessi e la propria capacità di risorgere».
Mai andato in psicanalisi?
«Tenuta a debita distanza. Con gli psicanalisti andavo a cena».
L’artista è solo?
«Siamo soli fin dalla placenta e lo siamo anche in punto di morte, ma non è che con l’età si sia più soli. Della solitudine, al limite, sei soltanto più consapevole».
Cosa si impara con l’età?
«Che l’estetica è l’ultimo dei problemi di un essere umano».
Detto da lei stupisce.
«Ci ho giocato e mi sono messo a disposizione della caricatura e dell’ironia perché l’estetica diventasse spensierata e provocatoria, ma non ho mai trasformato la mia stravaganza in opportunismo o in strumento ruffiano. Volevo raggiungere il cuore di qualcuno, non essere personaggio e basta. Spero si sia capito». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero