“The Wall of Shame”, a Roma l’arte è donna e scende in strada contro il razzismo sui social

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«Qualcuno ha detto che l'unica razza è quella umana. Io non sono d'accordo: chi ha scritto i commenti che ho incollato sul muro, chi si riempie la bocca con questa melma rivoltante, chi crede di essere superiore solo perché, in modo del tutto casuale, è nato in un posto invece che altrove e ha la pelle bianca, non ha nulla di umano». L’altra notte, in viale Regina Elena e non lontano dal Policlinico Umberto I, la street artist anonima Laika, che da un po’ di tempo si è imposta con le sue singolari opere d’arte sulla scena indie e underground della Capitale, ha realizzato per strada il poster battezzato The Wall of Shame (Il muro della vergogna). Un puzzle-collage che raggruppa frasi razziste indicando nomi, cognomi e volti degli autori, che provengono da Facebook, Instagram, Twitter e altri social network o siti dove i “leoni da tastiera” ruggiscono ancora in rete tramite i loro feroci post. E se le manifestazioni e i movimenti contro la discriminazione razziale sono ormai quotidiani in seguito all’omicidio di George Floyd negli Stati Uniti colpiti dal Coronavirus, l’artista predilige nel suo murale, al motto di “#StopRacism”, un lessico crudo, senza filtri e privo di orpelli per lanciare un messaggio di denuncia e solidarietà.


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Naturalmente declinato al femminile grazie all’estro e alla sensibilità ribelle di Laika, che racconta: «Ho raccolto decine di commenti, pubblicati su pagine di informazione e gruppi di discussione, che trasudano del razzismo più becero e ripugnante. Ci sono persone che gioiscono per le morti in mare, gente che vomita odio nei confronti di ragazze e ragazzi italiani che hanno genitori stranieri, chi inneggia alla violenza per la difesa della nazione contro una supposta invasione. C'è chi riesce a prendersela addirittura con i bambini che vanno a scuola». Una posizione chiara e precisa la sua, secondo cui «il razzismo si nasconde dietro il controllo supplementare in aeroporto a un uomo o una donna con la pelle più scura, nella lingua che identifica una categoria di lavoratori con una certa nazionalità, quindi chi fa le pulizie diventa "la filippina" e l'ambulante “il marocchino”.


È razzismo essere accusati per spaccio di stupefacenti senza alcuna prova o quando a me, donna bianca, viene offerto uno stipendio di un tipo mentre ad una nera se ne dà uno inferiore». Il linguaggio utilizzato, duro e diretto, si riflette nel suo lavoro di groupage a Roma. «Ho voluto mettere su carta e muro lo schifo del mio Paese, la sua parte peggiore con nomi e cognomi, anche se si tratta solo di una goccia del mare di ignoranza presente in Italia. Tali individui non possono pensare di sversare il liquame di cui sono composti senza pagarne mai le conseguenze.», fa sapere la creativa, che aggiunge «Sul razzismo non esistono toni concilianti, non è qualcosa da derubricare a “libertà di espressione” e queste non sono solo parole al vento che si perdono nel web. Ogni giorno ci sono esseri umani che soffrono e sentono l'odio sulla propria pelle, vittime sia dal punto di vista fisico che psicologico. Nella mia opera si evince una forma di discriminazione assolutamente palese a tutti, ma non è l'unica, anzi. Ne esistono tante altre e molto più subdole, contro le quali è importante che ci sia il nostro impegno, sia come società civile che come singoli». Con l’obiettivo di guardare verso orizzonti più aperti e tolleranti in cui il rispetto per le diversità parte dai comportamenti quotidiani di ognuno all’interno di un mondo che dovrebbe costruire la sua forza sul multiculturalismo. Soprattutto dopo l’emergenza pandemica internazionale.
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Il Messaggero