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Abbiamo alle spalle una settimana di importanti vertici mondiali: i leader dei venti grandi Paesi (G20) si sono trovati a Bali per affrontare i problemi economici e politici del pianeta, mentre rappresentanti ed esperti di 196 nazioni sono convenuti a Sharm El-Sheikh (nel Cop27) per un lungo e difficile dibattito sul cambiamento climatico, sulle sue conseguenze e sui possibili rimedi per farvi fronte. Entrambi i vertici sono degni di riflessione, anche se assai diversi tra loro negli obiettivi e, soprattutto, nelle modalità di svolgimento. Nel G20 di Bali le discussioni collettive sull’economia, previste dall’agenda, non hanno infatti avuto alcun risalto e i media si sono esclusivamente concentrati sui colloqui bilaterali fra i protagonisti, con una particolare enfasi su ogni dettaglio dell’incontro fra Biden e Xi Jinping.
Anche se questo non era l’obiettivo per cui era stato programmato, dobbiamo essere contenti che il G20 sia stata l’occasione colta dai leader dei due Paesi più potenti del mondo per parlare di tanti problemi ma, soprattutto, della pace in Ucraina. Non si è arrivati a nessuna decisione conclusiva, ma le prospettive di un confronto nucleare sono ora diminuite e i segnali di possibili accordi sono aumentati. Non è infatti casuale che, quasi in contemporanea, si siano svolti in Turchia incontri ripetuti tra le varie “intelligence” e che l’ “incidente” del missile precipitato in territorio polacco sia stato superato senza le conseguenze negative che sarebbero avvenute, in analoghe circostanze, solo poche settimane fa. Con tutto questo non siamo certo entrati nella prospettiva di una fine del conflitto, che mostra anzi segni di recrudescenza. Questo non tanto sul fronte militare, quanto per le sofferenze inflitte al popolo ucraino. Il messaggio arrivato da Bali è tuttavia molto chiaro: alla guerra si sta accompagnando il dialogo e la diplomazia comincia ad affiancarsi alle armi.
Quest’atmosfera ha inoltre permesso un certo riavvicinamento fra l’Occidente e il resto del mondo.
Del tutto diverso è stato il grande dibattito sul clima di Sharm El-Sheikh. Il confronto è stato a tutto campo e fra tutti i paesi. Iniziato con la sconsolata constatazione che gli obiettivi, solennemente sottoscritti a Parigi nel 2015 per combattere il riscaldamento globale, non sono stati raggiunti, è proseguito con la consapevolezza che sarebbe stato molto difficile raggiungerli in futuro. È purtroppo emerso con assoluta evidenza che, nella lotta contro i cambiamenti climatici, disponiamo di una grande quantità di progetti, ma non degli strumenti per metterli in atto. La paura per le conseguenze del riscaldamento globale è infatti unanime, i mezzi per combatterlo largamente condivisi, ma sui modi di metterli in atto le divergenze sono state profonde e la soluzione è arrivata solo all’ultimo minuto. Le difficoltà erano soprattutto emerse quando si è cominciato a parlare dei costi. Le risorse finanziarie necessarie sono infatti molto superiori a ogni previsione e si è dovuto a lungo trattare sulla distribuzione degli oneri fra i diversi Paesi.
Gli stessi europei sono arrivati in Egitto conservando le loro ben note differenze sulle politiche energetiche, ma ancora più difficile si è dimostrato il tentativo di avvicinare le distanze esistenti fra i Paesi ad alto livello di reddito e quelli in via di sviluppo, che più si sentono minacciati dal cambiamento climatico. Basti pensare che i Paesi poveri hanno premuto perché i Paesi più ricchi pagassero i danni del cambiamento climatico prendendo come base il livello di inquinamento prodotto nel 1992, quando il loro peso, Cina compresa, era molto modesto. I Paesi più ricchi hanno sostenuto invece che i conti debbano essere fatti prendendo come base i dati di oggi, quando Cina e India sono entrati nel gruppo dei grandi inquinatori. E potremmo proseguire con le differenze. Alla fine sembra essere arrivato il miracolo. Cioè l’accordo all’ultimo minuto. Dobbiamo quindi constatare che a Bali si è fatto probabilmente un passo in avanti, e così a Sharm El-Sheikh.
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