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Salvi i formaggi duri, a partire dal re dell’export “sua maestà” il Parmigiano reggiano. In buona compagnia del Grana Padano, del pecorino sardo e romano, del Montasio e del Nostrano Valtrompia. Insomma, la spunta la pasta alla carbonara, ma è pollice verso per la pizza con mozzarella filante. Superato lo scoglio dell’accordo quadro tra Washington e Bruxelles, la partita dei dazi va avanti senza sosta. Stavolta però il grosso del match si disputa bilateralmente, l’amministrazione Trump da un lato e le singole cancellerie europee dall’altro. Nel mezzo la lista delle “eccezioni”, vale a dire l’elenco dei prodotti destinati ad esser graziati dalla mannaia dei rialzi alla dogane fissati al 15% tra i campi di golf di Turnberry. Con acciaio, alluminio e rame rimasti fuori dall’intesa siglata da The Donald e Ursula von der Leyen, e che continuano ad essere falcidiati da un balzello del 50%.
Il gran bazar
Per il resto, le trattative vanno avanti serrate, tanto che le rotte commerciali che si incrociano tra le due sponde dell’Oceano assomigliano a un gran bazar. Silenzioso però, visto che la partita è delicatissima e interi comparti rischiano di restare col cerino in mano. Con tutti i contraccolpi del caso.
L’Italia gioca in prima linea, visto che tra i 27 è il Paese che negli States esporta di più, secondo sola alla Germania. A lavoro tutti i ministeri interessati al dossier - dalla Farnesina capitanata da Antonio Tajani al Made in Italy di Adolfo Urso, passando dal dicastero delle politiche agricole guidato da Francesco Lollobrigida - ma è soprattutto Giorgia Meloni a portare avanti la palla in una partita per Roma decisiva. Facendo leva anche sul «rapporto privilegiato» con gli Usa, e, in questo caso, con il segretario al Commercio Koward Lutnick, gran visir della trattativa sui dazi.
L’Italia, riferiscono fonti autorevoli, sembrerebbe averla spuntata sui formaggi “a pasta dura”, che a ben guardare rappresentano il grosso delle 40mila tonnellate dei prodotti caseari esportati in America. Con il Parmigiano reggiano che uscirebbe dalla guerra commerciale innescata da Trump addirittura rafforzato: prima del “Liberation day” era sottoposto a un dazio del 25%, poi sforbiciato al 10 durante la pausa concessa da The Donald e ora, salvo ripensamenti, destinato ad essere addirittura azzerato. Ingrossando guadagni già corposi lungo la filiera. Ma si tratta di un caso isolato. Tirano infatti un sospiro di sollievo gli altri formaggi duri “minori” - dal pecorino al Montasio - che nell’era Biden non scontavano alcun balzello alle dogane a stelle e strisce e che ora avrebbero faticato a reggere il 15%. Resterebbero fuori dalla lista delle eccezioni, invece, mozzarella, gorgonzola, burrata e stracchino, dunque i formaggi a pasta molle, mentre dovrebbe andar meglio a pasta e olio d’oliva, ormai ad un passo dall’elenco dei “miracolati”. Con spaghetti, fusilli e pennette che, con buone probabilità, continueranno ad arrivare negli Usa senza dover scontare un balzello aggiuntivo del 15%.
Strada in salita
Più complessa, invece, la partita del vino e del prosecco. Difficile che rossi, bianchi, rosé e bollicine possano finire tra le eccezioni. Almeno a stretto giro. La speranza che si respira in ambienti di governo è che possano essere “graziati” più avanti, anche giocando di sponda con la Francia che, negli States, esporta vini e champagne a fiumi. «Il muro prima o poi è destinato a cadere», la convinzione che rimbalza, anche se i dazi al 15% sul vino vengono considerati al momento inarginabili. A preoccupare non sono tanto le vendite dei prodotti di alto profilo - Brunello di Montalcino e Amarone, per intenderci, dovrebbero scaricare facilmente i rialzi lungo la filiera - quanto le bottiglie di prezzo “medio”, vendute a prezzi più abbordabili. E che rischiano di non reggere rincari di 5-6 dollari al pezzo.
«Prevediamo un calo dal 5 al 7% delle vendite del vino italiano negli Usa. Una pessima notizia considerando che quello americano è il nostro primo mercato estero, con 1 miliardo e 900 milioni di fatturato all’attivo - dice al Messaggero Stefano Bottega, presidente del gruppo vinicolo di Confindustria Veneto Est - Resto ottimista sulle opportunità offerte da nuovi mercati da esplorare, con potenziali margini di crescita. A partire dalla piazza asiatica, con un fatturato di 450 milioni di euro che potrebbe salire anche trainata dall’Expo 2025 a Osaka, dove il padiglione italiano si è distinto come il più “gettonato” dell’intera area espositiva. Bisogna restare testardamente ottimisti. Nonostante le difficoltà, io non ho dubbi che la qualità e il prestigio del vino italiano, combinati alle capacità dei nostri imprenditori, alla fine sapranno essere più forti dei dazi di Trump».
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Il Messaggero