“Amala”. La medicina? “No, l'Inter, dopo le Fere naturalmente”. La risposta che non ti aspetti, da lei, che da pochi mesi è stata nominata “Foreign Adjunt Professor” in geriatria traslazionale presso la Karolinska institutet di Stoccolma. Patrizia Mecocci, già direttrice della struttura complessa di Geriatria dell'Azienda ospedaliera di Perugia e Ordinaria del gerontologia e geriatria, presso il Dipartimento di medicina e chirurgia dell'Università di Perugia, è entrata nel gotha mondiale della ricerca per le discipline biomediche. Un comitato dell'istituto seleziona, ogni anno, i vincitori del Premio Nobel per la medicina. Avremo una ternana Premio Nobel per la medicina? “E' più facile che vinca quello per la Pace!” esclama ridendo.
La voce calma, toni bassi, da consumata speaker radiofonica quale è stata.
Semplice no? La determinazione, l'incoscienza, non avere limiti nel perseguire i propri obiettivi, tutte caratteristiche che unite ad una personalità carismatica portano il medico ternana, dai campi del Liberati, calcati come Fera mascotte, con la passione per Lele Ratti e Piero Volpi, ai vertici della ricerca mondiale.
Che altro ci vuole? “Un pizzico di prepotenza. Da piccola mi chiamavano “Pupetta Mecocci”, giocavo con i maschi a indiani e cowboy e a pallone, stavo in porta. Facevo la collezione delle figurine Panini, che gioia quando trovavo Facchetti e Boninsegna, le bambole non facevano per me. A quattro anni ho deciso che avrei fatto il medico, “l'Allegro chirurgo” è stato il gioco che mi ha visto protagonista e Cronin lo scrittore preferito”. Che dire? Una predestinata.
Gli studi al liceo classico, il mitico Tacito, sezione C: “Una classe fantastica. Non ci siamo mai persi di vista. Sin dal primo anno dopo la maturità abbiamo preso l'abitudine di vederci almeno una volta l'anno. Per i 25 anni dal diploma abbiamo chiamato tutti i professori, compresa il terrore di tutti noi, la prof di matematica Fiori, che mi ha trasmesso il rigore”. Rappresentante di classe al liceo, rappresentante regionale dei Fucini all'università, una leader di nascita: “Leader non so. Sicuramente ostinata. Il mio mito, il mio punto di riferimento è stato Pietro Mennea. Guardandolo, con quel fisico mingherlino, non ci avresti scommesso una lira e, invece, con la sua caparbietà ha surclassato i giganti della velocità. Come donna ho dovuto, sicuramente, faticare di più, ma non ho mai mollato. Ho sempre messo l'asticella più in alto. In Italia ancora sulla parità c'è da lavorare, quando vado in Svezia mi si apre il cuore, i tre quarti del personale docente è donna. Se ho sacrificato la mia vita personale per il lavoro non lo so. Non sono sposata e non ho figli, non è stata una scelta. La vita va come deve andare, metterci le mani incasina tutto”.
Come preferisce essere chiamata? Professore, professoressa, ordinaria, ordinario, direttore direttrice? “Ma guardi non credo che cambi la percezione di me, usare un linguaggio di genere, però “ordinaria” non mi piace, mi sembra che mi sminuisca, invece, quando mi firmo, scrivo “direttore”. Gli uomini sono più bravi di noi a fare squadra”. Grande viaggiatrice, da sola o in gruppo. Il viaggio del cuore in Uzbekistan: “Bisogna viaggiare, apre la mente, si cambia prospettiva. Quando si cammina il cervello si rilassa”.
Già il cervello, quella parte del corpo così ancora tanto sconosciuta. “Quando la malattia degenerativa lo aggredisce è come una macchina sfrenata in discesa. Io cerco di essere di supporto ai miei pazienti e ai loro famigliari. I farmaci, ancora, servono solo a frenano il decorso della malattia, non la risolvono. Non dite mai davanti ad un paziente con Alzheimer, o altra malattia neurologica degenerativa, che non c'è niente da fare, che tanto non capisce. Non sappiamo se vi è incoscienza totale. Ci sono momenti di lucidità devastanti”.
La bimba monello, la disc jockey, la fera mascotte muta. Cambia la voce, l'intensità. E' diventata la Professoressa Patrizia Mecocci, una vita dedicata ai più fragili, alla ricerca di una speranza, che ancora non c'è. In bocca al lupo.