La vita di Tardelli, un’esultanza da leggenda

La vita di Tardelli, un’esultanza da leggenda
di Luca Ricci
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Sabato 21 Maggio 2016, 10:41
Luca Ricci (Twitter: @LuRicci74)

“Il mio urlo è durato 7 secondi. Il mio amico Gaetano Scirea mi ha passato la palla in area e l’ho colpita in scivolata. Rete. Italia 2, Germania 0. Il boato di novantamila persona. E io ho fatto la cosa che amavo di più: ho corso”. Con queste parole Marco Tardelli descrive quella che per molti resta l’esultanza più bella della storia del calcio. Lo fa insieme alla figlia Sara nel libro “Tutto o niente” (Mondadori, pag. 167, 18,00 €).
Alla finale del mondiale spagnolo il racconto torna sempre, quasi che tutti gli eventi della vita di Tardelli si potessero dividere in prima e dopo il 1982. Più precisamente, tutti gli eventi prima del 1982 sembrano “preparatori a” e tutti quelli posteriori al 1982 “conseguenze di”. Esistono anche vite così, che si sostanziano e diventano paradigmatiche in 7 secondi trasmessi in mondovisione. Sì, perché in quell’esultanza c’è qualcosa che trascende il fatto sportivo, il tifo, il calcio.
Empatia è una parola che deriva dal greco empatéia e significa “sentire dentro”. Chi crea empatia non va solo verso gli altri, ma si sforza di portare gli altri nel proprio mondo. E questo dovrebbe essere il senso di ogni esultanza calcistica degna di questo nome, il calciatore esulta per fare esultare tutti gli altri. A pensare a come esultano i calciatori oggi, ci sarebbe da fare un monumento a Tardelli. Le esultanze seriali- inaugurate da Batistuta (la mitaglia), Montella (l’aeroplanino), Del Piero (linguaccia), Gilardino (violino)- sono solo gesti automatici per aumentare la riconoscibilità dell’attaccante, marketing per aumentarne l’appeal.

Un velo pietoso dovrebbe essere steso anche sulla serie di esultanze ginniche (doppi o tripli salti mortali), coreografiche (balletti, magari concordati con altri componenti della squadra) o didascaliche (esibizione di t-shirt sotto la maglia ufficiale con scritte invariabilmente trascurabili). Sul gradino più basso di questa particolare classifica c’è ovviamente Mario Balotelli, il quale rinuncia per partito preso all’esultanza. Il ragazzo di Brescia pensa che non mostrare la propria emotività lo renda più forte. Invece è esattamente il contrario. Non esprimendo la sua gioia, lasciandola strozzata in gola, compressa nei muscoli, Balotelli ruba quell’emozione anche a chi guarda, a tutti noi.

Sempre a proposito della sua esultanza leggendaria dopo il 2 a 0 alla Germania, Tardelli scrive: “Ero inondato dai ricordi, dal senso di riscatto, dall’adrenalina”. Non poteva dire meglio, e si vede tutto. In quella corsa a rotta di collo- solo Claudio Gentile prova invano per un paio di volte a fermarla- c’è il ragazzino che dai monti della Garfagnana arriva alla periferia di Pisa. Il quartiere Cisanello che sa ancora di terra, le partitelle all’oratorio. Una vita umile, fatta di un paio di scarpe nuove all’anno (e guai a giocarci a pallone), la carriera calcistica vista come una cosa frivola, un po’ da stupidi (il padre non andrà mai allo stadio a vedere giocare Marco).
Poi quella sera di luglio del 1982. Quei colori azzurri di una notte estiva che sono già un presentimento di vittoria. Lo sbuffo di gesso che alza Cabrini quando con una scarpata sbaglia il rigore e ci fa temere che l’Italia spari a salve. Poi il goal di Paolo Rossi in mischia, poi l’urlo di Tardelli (per chi quella sera aveva otto anni, Tardelli sta ancora correndo, sta ancora urlando), poi Bruno Conti che va avanti e indietro sulla fascia e alla fine c’è Pertini che esclama: “Non ci prendono più”. Andate in libreria, se volete rivivere ancora una volta quei momenti.




 
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