Elizabeth Strout a Mantova: «Così soli, così illusi, narro le paure di tutti»

Elizabeth Strout a Mantova: «Così soli, così illusi, narro le paure di tutti»
di Gabriele Santoro
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Domenica 10 Settembre 2017, 10:51 - Ultimo aggiornamento: 12 Settembre, 15:28
«Ciò che mi interessa principalmente è scrivere a proposito delle persone, senza accontentarmi di un solo sguardo», ha ripetuto spesso Elizabeth Strout, una delle autrici statunitensi più note e ammirate. A Mantova, dove oggi si concluderà il Festivaletteratura, è stata forse l'ospite più ricercata. Nel 2009 la consacrazione con la terza opera, Olive Kitteridge, che le è valsa il Pulitzer. Lei, originaria del Maine, a New York ha costruito la distanza necessaria a raccontare con una cura unica e con empatia paesaggi interiori ed esteriori della provincia americana. Da meno di una settimana è stato pubblicato in Italia il suo nuovo libro Tutto è possibile (Einaudi, 205 pagine, 19 euro, traduzione di Susanna Basso), che esplora ancora in una serie di racconti l'ambiguità, la delicatezza della condizione umana.

Il personaggio di Charlie Macauley, un reduce per il quale la guerra non è mai finita, incarna alla perfezione il senso della ricerca che unisce le storie. Fino a che punto la guerra è una questione privata?
«Amo Charlie. La guerra è una questione privata, penso che lo sia e rimanga tale. Possiamo parlare della guerra, ed è tutt'altro che negativo, ma resta qualcosa di estremamente intimo, perché non è generalizzabile e non appartiene a tutti. Si tratta di un sentimento anche americano spesso ineludibilmente solitario. A Charlie è toccata una sorte peggiore rispetto ai reduci della Seconda Guerra, il Vietnam, perché nessuno voleva crederci. Hanno catturato il mio interesse uomini che vanno in guerra, ritornano a casa, e le ferite di coloro che non possono riprendere più una vita piena. E questo conta, ci coinvolge tutti».

Nel romanzo emerge l'urgenza, che non è pretesa, di essere accolti. Ciò che più impressiona di queste storie è lo stupore per la gentilezza, che giunge inattesa anche da estranei.
«Sì, succede nel romanzo e anche nel silenzio s'instaurano momenti di connessione che è comprensione. Il titolo Tutto è possibile riguarda quegli istanti di grazia che possono manifestarsi in modo inatteso alle persone che non credono più possa accadere. Il desiderio di essere compresi, e la paura di non esserlo, restano un desiderio universale».

Quale ricchezza narrativa conserva la provincia?
«Ritengo che il mio interesse dipenda soprattutto dall'illusione che coltivano le persone di una piccola città di conoscersi reciprocamente. Non è così, e lo adoro. Camminando lungo la strada principale di una cittadina le stesse persone si salutano da trent'anni senza sapere nulla dell'altro. Oppure sviluppano e sedimentano, spesso senza alcun fondamento, per anni un'idea su chi sia la persona che percorre le stesse strade. L'inconoscibilità in quanto scrittrice deve interessarmi. Il paesaggio interiore e quello esteriore conducono al mio mondo: l'idea che ognuno abbia la propria vita ordinaria e poi esista un altro universo. La mia scrittura è animata dal come interagiscono».

Il mestiere dello scrivere le ha consegnato una definizione soddisfacente di famiglia?
«Che cos'è una famiglia? Chi può conoscerla? La situazione si fa interessante, poiché non scegliamo la nostra famiglia e lei non ci sceglie, dunque si tratta di un universo di relazioni completamente differente da un'amicizia. Per uno scrittore è semplicemente entusiasmante gettare scompiglio fra il frastagliato mondo delle famiglie americane».

Nel libro ripropone con forza la questione della frattura e della dinamica fra classi sociali.
«Oggi i poveri sono sempre più poveri, mentre i ricchi sempre più ricchi. Finalmente in seguito all'elezione di Trump si è iniziato a sviluppare un discorso sulle persistenza delle classi e delle sperequazioni sociali, ma è ancora un argomento tabù. Quando ero giovane si pretendeva che non ci fossero classi ed è folle perché sono sempre esistite».

Viviamo circondati da paure antiche e nuove. I suoi personaggi ne manifestano molte. In che modo riesce a esprimere l'incapacità di contestualizzarle ed elaborarle?
«È una questione centrale. A sessantuno compiuti non ho perso la fascinazione dell'ascoltare, dell'osservare e la meraviglia per ciò che anima le persone. Posso comprendere più a fondo le emozioni. Per amare un personaggio, e devo ammettere che i miei li amo un po' tutti, deve suscitarmi un sentimento speciale. Non mi interessa che si comporti bene o metterlo all'indice. Deve trasmettermi quel sentimento, altrimenti non sarà parte del libro. Lo faccio entrando dentro di loro mentre bruciano, sono soli, riesco a scovarlo in qualche modo. Ciò mi fa sentire bene».

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