L'indipendenza, il nostro Dna

Dalla sua fondazione ad oggi l'identità del Messaggero è rimasta la stessa: autorevole, popolare, sempre sensibile ai cambiamenti del Paese

L'ingresso del Messaggero in via del Tritone a Roma
di Mario Ajello
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Sabato 17 Giugno 2023, 09:16 - Ultimo aggiornamento: 19 Giugno, 07:06

Il dna è tutto. E se al codice genetico del Messaggero – cioè all’impostazione laica, liberale, indipendente scelta 145 anni fa – si aggiunge la profonda e costante sensibilità di questo giornale ai cambiamenti sociali, culturali, economici, di costume e tecnologici, allora una storia che viene da lontano si traduce in successi che parlano alla modernità e influiscono su di essa.

Le origini 

Il dna del Messaggero, conservato e innovato dalla nascita nel 1878, finisce così per risultare ancora più forte oggi. Dopo che i vari passaggi di questa vicenda hanno dato un’identità al giornale di Roma – intesa come triplice Capitale: italiana, spirituale, mondiale – che è sempre stato sulla cresta della storia: dalla fase della fondazione a quella della proprietà dei fratelli Perrone di Genova, dal periodo del Ventennio (in cui Alessandro Pavolini dirigeva Il Messaggero da una camera dell’Hotel Excelsior di Via Veneto dove alloggia con Doris Duranti, diva del regime) a quello della Montedison. Fino all’acquisizione da parte del gruppo editoriale Caltagirone che ha saputo coniugare attivamente la grandezza del passato con la proiezione nel futuro. 
Non è un caso, a voler guardare l’insieme di questa lunga avventura, che Il Messaggero si rivelò uno dei pochi giornali a non essere finanziato dalla Banca Romana al tempo del grande scandalo. In questo – a proposito di identità tuttora viva – si vede l’indipendenza del giornale da ogni tipo di potere esterno. Il Messaggero è condizionato da se stesso, ecco. E lo è da quando, l’8 dicembre 1878, il milanese Luigi Cesana decise di fondarlo. 


Oggi lo definirebbero uno start-upper. Lo chiamavano “il Cesanino” ed era figlio di uno dei fondatori del mitico Fanfulla. Capì, “il Cesanino”, la forza del racconto di cronaca e dei romanzi a puntate. E subito si disse della sua creatura: «Nessuno a Roma può fare alcunché, senza che il Messaggero lo registri». Allora, rispetto ad oggi, Il Messaggero aveva una «i» in più. Il nome originario è infatti “Il Messaggiero”. E – occhio all’attuale coerenza rispetto agli esordi – cominciò a intrecciare la puntuale attenzione ai disagi dei cittadini, ai loro diritti di vivibilità, alla quotidianità dei romani in una città dotata di proiezione e potenza globale e insieme piena di problemi materiali d’ogni giorno, con l’incalzante funzione di pressing sulle classi dirigenti affinché fossero consapevoli del loro ruolo cruciale di élite. Basti pensare a come, nato all’epoca del trasformismo di Agostino Depretis, primo capo di governo della Sinistra storica, questo giornale prese a criticare l’esecutivo ma inizialmente seppe anche vedere – paraocchi non ne ha mai avuti – l’utilità storica di qualsiasi strategia che fosse finalizzata alla stabilità e alla governabilità, tenendo lontane dal quadro politico le sirene dell’estremismo parlamentare e piazzaiolo. 


Il senso della duttilità, ovvero il fastidio per ogni cristallizzazione ideologica, è così appartenente a questa vicenda industriale e culturale che Il Messaggero – solo per fare un esempio solenne – dopo aver criticato il divorzio di Giuseppe Garibaldi, quando l’Eroe dei Due Mondi morì il 2 giugno 1882 avrebbe dedicato all’avvenimento quasi l’intero giornale. Che si era distinto per il racconto nazional-popolare degli ultimi giorni del generale a Caprera. L’amore per la moglie Francesca, la carne cotta alla brace alla maniera argentina e la finestra aperta sul mare: tutto sul Messaggero. 

Una bussola liberale per la nuova Italia 


Se è stato una bussola liberale per l’Italia che era appena nata, poi questo giornale sarebbe diventato una guida anche per la modernizzazione del Paese e della sua Capitale. Sempre all’insegna dell’aderenza ai fatti e della vocazione pratica a proporre soluzioni concrete per Roma. Perciò si avvertiva nella prima pagina del 4 febbraio 1880: «Serve meno politica e più buona amministrazione». Si rintracciò nella candidatura nel 1907 di Ernesto Nathan a sindaco di Roma la possibilità che questa richiesta non solo del Messaggero ma della maggioranza dei romani potesse diventare la linea dominante. «L’erede del pensiero di Mazzini»: così venne presentato ai lettori il repubblicano, anticlericale, massone, cosmopolita Nathan. 
Il giornale sostenne tra l’altro, nella sindacatura conclusa nel 1913, la lotta di Nathan per la trasparenza nei conti comunali e nella pubblica amministrazione. Per non dire del rilancio urbanistico anche legato al cinquantenario dell’Unità d’Italia (1911). La città che cambia e come farla cambiare, i grandi eventi che la trasformano e la rafforzano, la spinta alla competizione con le altre metropoli: anche di questo è fatta e continua ad essere fatta l’epopea di passioni e di successi del Messaggero. La cui sede, anzi la sua culla, era stata in via del Bufalo, ma nel 1920 il grande salto. 


La scena si sposta nel palcoscenico di via del Tritone. Qui c’era l’albergo Select, costruito nel 1887 e ceduto nel 1920 per diventare il cuore del Messaggero e il crocevia dell’informazione a Roma. Impossibile non notare, passando, il suo bell’ingresso, con la tettoia in ferro battuto, in un incrocio molto trafficato. Traffico di persone, di auto, di notizie: che vitalità! Questo è un palazzo tra i più rappresentativi dell’epoca umbertina. Nel secondo dopoguerra, al tempo della direzione di Mario Missiroli, ancora si ricordavano così gli anni del trasloco a via del Tritone: «Al Select si facevano e disfacevano i governi». Nell’ingresso si trova ancora oggi, conservata con gran cura in una teca, una vecchia linotype utilizzata al tempo della composizione “a caldo”. 
Ma con Missiroli siamo già più avanti nella storia. Prima, occorre soffermarci sull’età giolittiana. Ed è stato favorevole a Giovanni Giolitti Il Messaggero finché quel grande statista non ha aperto ai socialisti e ai cattolici. La Chiesa post-unitaria, con la grancassa mediatica che aveva mantenuto a suo sostegno, su queste colonne è stata vista come un avversario. Ma l’anti-clericalismo più corrivo sarebbe stato un’eresia rispetto al dna della casa. Semmai, il timbro è stato quello di un rigore laico che ha dato centralità al Messaggero nei momenti salienti della vita nazionale – si pensi alla difesa dell’insediamento della statua di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori tra le crociate della Curia e le proteste dei preti – ma la laicità versione via del Tritone è stata più in generale quella, e quella rimane, dell’affrancamento dai poteri d’ogni tipo, dalle corporazioni professionali e sindacali, nonché dalle aree d’influenza politica e dallo schieramento partigiano. E c’è da essere orgogliosi di questo tipo di collocazione ideale, disseminata in ogni tratto del percorso e in ogni pagina del giornale. 
La freschezza e lo sprint, tipici del personaggio, Il Messaggero ebbe la fortuna di praticarli quando ne divenne direttore Mario Missiroli – che ha guidato anche Il Resto del Carlino, Il Secolo e il Corriere della sera – e fu lui che diede al giornale una linea degasperiana.

Portò come collaboratori Papini, Cardarelli, Spadolini, ma soprattutto dal ‘46 al ‘52 Benedetto Croce. Che di Missiroli scrisse: «Ecco un uomo al quale non si può fare una statua. Le statue stanno ed egli si muove». 


Poi il quotidiano di via del Tritone si sarebbe mosso, in senso molto diverso da quello di Missiroli, verso la direzione di Alessandro Perrone (che era allo stesso tempo editore) dal ‘52 al ‘74. Lui portò a sua volta firme prestigiose, come quella di Alberto Moravia. Puntò molto sul tema dei diritti civili – è del ‘74 la celebre copertina con il No all’abrogazione del divorzio – e sostenne l’apertura del governo verso il centrosinistra. Non evitò però certi sconfinamenti nel radicalismo e nell’ultra sinistra. Fu quello il periodo in cui Luigi Barzini junior, un grande giornalista, fu vittima di una sindrome che negli anni ‘70 si diffuse nel giornale: il sindacalismo padrone. 

Il periodo della Montedison 


Nel ‘73, Edilio Rusconi lo designò direttore. Barzini dovette rinunciare: gli fu impedito, per l’opposizione di una parte della redazione schierata con il comproprietario Alessandro Perrone, di entrare fisicamente nella redazione di via del Tritone. La quale firmò così una delle rare pagine illiberali della sua storia. Ma poi, con il periodo della Montedison e di Eugenio Cefis sulla tolda di comando dell’azienda, si avviò un assestamento di linea politica e culturale. L’operazione Cefis – succeduto a Enrico Mattei e presidente di Montedison dal ‘71 al ‘77 – è stata quella di riportare Il Messaggero, dopo la sbandata a sinistra, verso il centro. Leggasi: Fanfani. Cefis scelse come direttore il socialista Italo Pietra, con cui aveva condiviso l’esperienza la Resistenza. Furono anni travagliati. La rottura si sarebbe consumata in un faccia a faccia al buio: l’unico modo per dirsi addio tra due amici da trent’anni. La storia di Montedison e Messaggero sarebbe continuata, con tutti i ben noti problemi societari di quel colosso industriale, negli anni a seguire. Finché avrebbe preso il via – e qui stiamo parlando di ieri ma anche di oggi – l’èra Caltagirone.

L'avvento di Caltagirone 

L'editore Francesco Gaetano Caltagirone con l'Amministratore delegato Azzurra Caltagirone 


Questa fase – Francesco Gaetano Caltagirone presidente e Azzurra Caltagirone amministratore delegato – a partire dal ‘96 si contraddistingue per il rilancio dei valori distintivi del Messaggero, rafforzandone i principi liberali di autonomia e di indipendenza. Nel mix di autorevolezza e popolarità s’insiste particolarmente sul miglioramento della Capitale, sui diritti di vivibilità dei cittadini, sul potenziamento della sua competitività anche economica e allo stesso tempo ci si impegna sulla forza del fascino di Roma e della sua universale capacità di attrazione. Il racconto, non solo della Capitale, si allarga con frequenti inchieste, focus e iniziative editoriali speciali rivolte al mondo istituzionale e a quello produttivo che diventano sempre di più un segno evidente di riconoscibilità e di successo. L’insistenza sullo sviluppo di Roma e il lavoro sullo sviluppo della testata sono due aspetti di un progetto coerente. In questa fase, Il Messaggero ha puntato e punta molto sull’evoluzione digitale dell’informazione e così ha ampliato la sua offerta e moltiplicato il suo ruolo, sfruttando tutte le piattaforme e assestandosi come uno dei gruppi leader sul mercato. 
Per gli editoriali, in questo sforzo di potenziamento dell’offerta e di cura dell’autorevolezza a cui il gruppo Caltagirone è particolarmente impegnato ottenendo tangibili riscontri, vengono coinvolte grandi firme e valgano pochi esempi per tutti: da Ciampi all’attuale ministro Nordio, per non dire di Prodi il quale tuttora è una dei commentatori di punta, mentre è appena tornato nella squadra Luca Ricolfi. Nei loro contribuiti e in quelli degli altri osservatori l’idea di progresso della nazione è un leit-motive e un marchio di fabbrica riconosciuto nell’opinione pubblica e nel mondo politico ed economico e insieme a questo basilare impegno va sottolineato – in questi ultimi decenni – quello in favore di una giustizia garantista e funzionante e non populistica e lacunosa. 
«Per pronunciare una sentenza – si legge sul numero del 23 gennaio 1880 – la magistratura italiana impiega due anni, quella francese sei mesi». Poi sarebbe stato anche molto peggio e dunque la continuità di una battaglia s’è resa necessaria. E proprio perché stiamo parlando delle radici che sono radici, ecco un’altra direttiva che ci viene dal passato e che potrebbe venire affissa sul portone di via del Tritone. È del 1882, e così avvertiva Il Messaggero il 10 ottobre in un editoriale intriso di pragmatismo liberale: «Il colore politico è l’ultima delle qualità che si deve cercare nel deputato. Se egli è galantuomo, farà il suo dovere, sia esso repubblicano, monarchico o clericale. Il colore politico non è che una vernice: raschiate, raschiate bene, e guardate che cosa c’è sotto». Da 145 anni, Il Messaggero questo fa.
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