Quartetto pericoloso/ Il nuovo asse protezionista sul commercio

di Giulio Sapelli
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Sabato 27 Maggio 2017, 00:05
Le notizie che giungono da Taormina sul commercio mondiale e sui neoprotezionismi destano non poche perplessità. E sono anche difficili da comprendere sia per l’economista sia per il cittadino che vuol vederci chiaro sulle cose del mondo.
Partiamo da un dato di fatto. Da quasi vent’anni i grandi della terra non riescono a concludere accordi multilaterali sugli scambi, ossia quei trattati stipulati tra più Stati che intendono abbassare le tariffe doganali o modificare i cosiddetti standard tecnici del commercio. Si tratta delle regole che sovraintendono alla non dannosità dei prodotti scambiati, alla compatibilità delle misure tecniche dei manufatti che debbono l’un con l’altro essere compatibili, sino a impedire i cosiddetti dumping sociali, ossia eccessive differenziazioni tra regimi salariali e condizioni di lavoro che preformano il valore delle merci. Questo era il cosiddetto Free Trade, ossia il libero commercio al tempo della leadership unipolare: nell’Ottocento il Regno Unito, nel Novecento, dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti. Nel periodo di mezzo, quando l’unipolarismo si era affievolito e gli imperi europei crollavano, nacquero i cosiddetti nazionalismi economici. Come effetto immediato si elevarono barriere doganali e tecniche, e questa fu la concausa più profonda che scatenò la tempesta del 1929, da cui si uscì con le riforme del New Deal e il riarmo che ci portò alla seconda guerra mondiale.

Da quel secondo dopoguerra, sino agli anni Ottanta, si procedette a fatica tra mille contraddizioni. Mentre a livello mondiale, in una sorta di piano sopraelevato, si predicava e si operava per il Free Trade, creando il WTO e le altre istituzioni finanziarie destinate a far circolare liberamente i capitali nel mondo, nei piani inferiori del pianeta si crearono robusti spazi protezionisti che evitavano la concorrenza nei confronti di insiemi di Stati, i quali tuttavia all’interno di quel perimetro abolivano dazi e ostacoli di qualsivoglia natura per il libero scambio delle merci e dei capitali. Il più importante di questi spazi, protezionisti all’esterno e liberisti all’interno, era il Mercato Comune Europeo, poi Unione Europea cui facevano e fanno corona i Paesi Nafta (USA, Canada, Messico), il Mercosur (Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay) seguiti da lontano dal tentativo di fare altrettanto con quel gran numero di Stati che si affacciano sul Pacifico, dall’Asia al Sud America, con l’Asean. La Russia, dal canto suo, ha creato spazi simili con taluni degli Stati che appartenevano alla dissolta Unione Sovietica.

Ma la spinta del commercio mondiale, sino a circa metà del decennio scorso, è stata tanto forte da cercare di collegare i due piani di questo mondo bipolare, ossia quello degli accordi tra una molteplicità di Stati e quello degli accordi tra un numero limitato di Stati. La globalizzazione finanziaria ha del resto agito in questo senso, sino a quando non ha visto esaurirsi la sua spinta propulsiva. Durante la presidenza Obama si è cercato, senza successo, di stipulare Accordi Transatlantici e Accordi Transpacifici, quasi come se gli Stati Uniti volessero di nuovo protendersi a un dominio del mondo che rafforzasse il loro ruolo di esportatori della sicurezza.
Quel tentativo è fallito, come è noto, e il nuovo presidente Trump ha più volte dichiarato che vuol sostituirlo con accordi bilaterali che, in effetti, sono la norma da molti anni su scala globale: una norma che è soprattutto frutto del pesante crollo ventennale del commercio mondiale, per il restringimento della domanda interna, per l’inizio della deflazione secolare, per l’instabilità delle relazioni internazionali e dei rapporti di potenza tra Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Russia e Cina.

Alcuni di questi Stati, similmente all’India, sono tanto esportatori di merci industriali, quanto di merci agricole, quanto di servizi al commercio virtuale attraverso le piattaforme di Google, Amazon, eccetera.
Insomma, negli scambi mondiali c’è un grande disordine sotto il cielo e la navicella liberista veleggia a fatica, come se fosse tra un mare di ghiacci. Il punto è che talvolta la storia si ripete, e se il commercio mondiale si blocca, il sistema arterioso della vita economica mondiale - sottolineo mondiale - potrebbe subire una serie di trombosi che porterebbero all’infarto come accadde nel 1929, quando più di un terzo del commercio mondiale assunse la forma del baratto. Trump, che ha davanti a sé una nazione indubbiamente impoverita dall’eccesso di export di capitali e di impianti manifatturieri, che seminano nuovi raccolti in terre straniere e che quando rimpatriano parte dei guadagni li reinvestono nella finanza anziché nell’industria che produce posti di lavoro, evidentemente pensa che gli Stati Uniti possono tornare agli antichi splendori grazie a un protezionismo totale, ossia in entrata e in uscita. E crede di poter fare ciò innalzando barriere doganali tanto tariffarie quanto tecniche. In questa scia sono da tempo anche Francia (non è casuale la vigorosa stretta di mano fra Trump e Macron dell’altro ieri), l’India, parte del Sud America. E non c’è da stupirsi: sono tutti paesi per tradizione statalisti sul piano del commercio e che si ostinano a negare quella che è invece la vera dinamica degli scambi.

Come ha dimostrato il Premio Nobel Paul Krugman, essi infatti avvengono non tra Stati ma tra imprese, le quali debbono essere libere di agire e di autodeterminare le regole dei flussi. Guai se questi flussi si dovessero interrompere per interventi frettolosi e non coordinati tra le filiere produttive e tra i meccanismi di scambio tra prodotti finiti e non finiti, tra catene di offerta e di domanda, tra imprese e tra cluster di imprese. Trump, Macron e gli aspiranti a un ritorno a forme di protezionismo assoluto, sembrano non comprendere che ciò che fa girare la ruota del commercio, e quindi della crescita, è l’interconnessione tra i reticoli produttivi e di valorizzazione dell’attività delle imprese, tanto di quelle esportatrici quanto - anche se in misura minore - delle imprese che vivono principalmente di domanda interna che, come è noto, subisce le influenze del commercio mondiale. Insomma, il protezionismo selettivo, gestito dalle imprese in cooperazione con uno Stato che ne segue gli impulsi, è in generale benefico, mentre quello assoluto, che dallo Stato promana per difendere settori che vivono solo di protezionismo, e quindi di rendita, e così facendo producono contromisure internazionali negative per altri settori, questo protezionismo è profondamente pericoloso. 
Ne sa qualcosa l’Unione Europea che lo dispiega in modo oltraggioso dinanzi agli agricoltori piccoli e grandi di tutto il mondo da più di cinquant’anni, e che ha indebolito e reso non sostenibile agronomicamente gran parte della produzione europea per gli anni a venire avendo mineralizzato terreni un tempo fecondi. Questo insegnamento valga per tutti, tanto per Trump, quanto per Juncker, Macron e compagnia.
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