Pd, minoranza in ordine sparso. Fassina: la scissione è in atto

Stefano Fassina
di Sonia Oranges
3 Minuti di Lettura
Lunedì 27 Ottobre 2014, 06:14 - Ultimo aggiornamento: 08:13
Se il leader democratico Matteo Renzi, dalla Leopolda, ha mandato chiaro e tondo il messaggio alla minoranza interna al Pd che non intende in alcun modo restituire il partito alla vecchia guardia, quelli che lo stesso leader considera i tutori dell'“ancien regime”, reagiscono in ordine sparso. «Se Renzi auspica una rottura, se lo tolga dalla testa. Noi rimarremo nel Pd per restituirgli la sua vocazione di grande partito della sinistra e per costruire un'alternativa che possa affermarsi nel prossimo congresso», è stata la sfida lanciata da Alfredo D'Attorre, bersaniano di ferro ed esponente di Area riformista, confermando che la minoranza intende dare battaglia «con maggiore energia per correggere le politiche sbagliate di Renzi», nella convinzione «che Renzi non sarà l'ultimo segretario del Pd». E, come gli altri sul suo stesso fronte, ha utilizzato la piazza di sabato a mo' di icona: «La piazza chiede una riforma che stia dalla parte di chi lavora, produce, si alza presto la mattina e tiene in piedi l'Italia, pazienza se questa riforma piacerà di meno a Marchionne o all'ottimo Serra».



LE POSIZIONI

Niente scissione, allora? La risposta è “nì”, a sentire Stefano Fassina, altro riferimento di peso della minoranza, secondo il quale la divisione è nelle cose e, quel che è peggio, è voluta dallo stesso Renzi. «Una scissione è in atto. Abbiamo incontrato molte persone che ci hanno detto che hanno lasciato il Pd. Oggi dico che la dovremmo evitare.



Ma è il presidente del Consiglio che alimenta la contrapposizione, ricercando un nemico. Noi vogliamo correggere i provvedimenti del governo che non funzionano, che non vanno a ridurre la precarietà, non abbiamo altri obiettivi. Se il presidente li ha è un problema per tutto il Pd, non soltanto per la minoranza. Spero che, oltre a non avere un partito di reduci, non abbiamo un partito soltanto di amministratori delegati o di grandi finanzieri con residenze nei paradisi fiscali», ha replicato ieri caustico Fassina, annunciando che «senza correzioni significative su tutti i punti della delega lavoro», non voterà il Jobs Act.



E alle misure sul lavoro all'esame della Camera, si è riferito anche il presidente della commissione Lavoro, Cesare Damiano, la voce forse più coerentemente critica verso le nuove misure in materia di occupazione: «La politica deve ascoltare la voce di chi ha manifestato in piazza San Giovanni: lavoratori preoccupati per il loro futuro, giovani che non trovano occupazione e pensionati che non riescono ad arrivare a fine mese. Molti hanno votato Pd e fanno parte di quel 40,9% delle elezioni europee. Una parte ha votato Renzi alle primarie, sono cittadini delusi che chiedono cambiamenti all'azione di governo: una legge di Stabilità che sia di sostegno alla crescita e che dia risorse realmente aggiuntive per proteggere con gli ammortizzatori sociali anche i giovani precari; un Jobs Act che non smantelli l'articolo 18 e lo Statuto dei lavoratori».



IL CONFRONTO

Secca la controreplica di Giuliano Poletti, ministro del Lavoro: «Il cuore del Jobs Act non si tocca - ha detto - dobbiamo superare la doppia morale per cui ci teniamo quello che abbiamo mentre milioni di persone non lo avranno mai». Il dibattito è aperto. Gennaro Migliore, appena trasmigrato da Sel nel Pd, proprio dal palco della Leopolda ha messo sull'avviso: «La piazza di Roma è una grande risorsa democratica: se uniremo le forze della democrazia saremo un argine al populismo». Un punto su cui, via twitter, ha manifestato qualche dubbio Giuseppe Fioroni: «Un Pd da Landini a Serra, non è maggioritario, ma totalitario nella confusione, magari delle estreme potremmo farne a meno, e saremmo più uniti».