Burundi, l'Onu pronta a mandare i caschi blu per impedire un genocidio come nel Ruanda

Bambini orfani del genocidio del Ruanda del 1994
di Anna Guaita
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Sabato 21 Novembre 2015, 11:23 - Ultimo aggiornamento: 13 Novembre, 18:08
NEW YORK – Cominciò il 7 aprile del 1994, e nell’arco di tre mesi costò la vita a oltre 800 mila persone. Il genocidio del Ruanda rimane come una delle peggiori macchie sulla coscienza della comunità internazionale nei tempi moderni. E rischiamo di vederlo ripetuto, nel piccolo confinante Burundi. La stessa lotta etnica che divideva allora Hutu e Tutsi ha rialzato la testa nello Stato centrafricano affacciato sui Grandi Laghi. In poche settimane 250 persone sono state uccise, ogni notte cadaveri vengono lasciati nelle strade di Bujumbura, e intanto più di 200 mila persone sono fuggite nel confinante Congo. I quartieri tradizionalmente abitati dai tutsi sono deserti, e nel Paese si respira la paura.



Questa volta però il mondo sembra deciso a non rimanere a guardare. Al Palazzo di Vetro dell’Onu il Consiglio di Sicurezza ha trovato una rara unanimità nel votare una risoluzione che mette in moto una serie di inititive "per - come ha detto l’ambasciatore britannico Matthew Rycroft - impedire che il genio del male esca dalla bottiglia”.



L’Onu sta agendo di concerto con l’Unione Africana e l’Unione Europea sul piano politico e diplomatico, lasciando aperta la possibilità sia di ricorrere a sanzioni economiche che all’invio di caschi blu. Intanto, come prima cosa, il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon ha nominato l’inglese Jamal Benomar suo inviato speciale con il compito di cercare una soluzione politica fra le fazioni in lotta. Benomar deve riferire entro due settimane al Consiglio di Sicurezza, che ha comunque sancito anche l’invio a sostegno della missione di 100 osservatori.



Se la situazione dovesse degenerare, sarà possibile che venga urgentemente distaccata in Burundi parte del contingente di caschi blu Onu attualmente nel confinante Congo. A sua volta, l’Unione Africana ha dato ordine alla “Forza Speciale dell’Africa Orientale” di “accelerare i piani per l’eventuale intervento nel caso la situazione peggiori”.



Il difficile equilibrio che è stato raggiunto nel Burundi nel 2005, dopo 12 anni di guerra civile fra Hutu e Tutsi, ha cominciato a traballare quando lo scorso luglio il presidente Pierre Nkurunziza ha ottenuto di essere rieletto per la terza volta, nonostante la forte opposizione popolare. Manifestazioni di dissenso sono state represse con la forza e nelle ultime settimane il tono del governo, che è nelle mani degli Hutu, ha echeggiato minacciosamente quello del governo estremista del Ruanda, quando nel 1994 dette il via al genocidio.



Il presidente Nkurunziza ha chiesto a tutti i cittadini di consegnare le proprie armi e ha ordinato perquisizioni nei quartieri di Mutakura e Cibitoke, a maggioranza tutsi. I raid sono stati condotti dalle “legioni giovanili” di suoi fedeli, all’insegna della violenza. Ci sono stati anche casi di resistenza, e un poliziotto è rimasto ferito. Ciò ha indignato il presidente del Senato, Reverien Ndikuryo, che ha minacciato: “Oggi uno degli agenti è stato ferito. Ma quando verrà il giorno in cui daremo loro l’ordine di mettersi al lavoro, non dovranno venire a piangere da noi”.



Le parole “mettersi al lavoro” erano state le parole d’ordine con cui il Ruanda dette il via al genocidio dei tutsi.



E’ stato proprio davanti a queste parole raggelanti che le organizzazioni internazionali si sono mobilitate. Il voto della risoluzione del Consiglio di Sicurezza, ha detto l’ambasciatrice Usa Samantha Power, “è un segnale importante dell’impegno internazionale, e dovrebbe essere un deterrente”. L’ambasciatore francese, Francois Delattre, ha sostenuto che l’unanimità dimostra che il mondo intende “assumersi le proprie responsabilità”.



Questi sono giorni decisivi. Il Burundi è sull’orlo del baratro, ma può ancora fare un passo indietro. Di certo, ora gli occhi del mondo sono puntati sulle strade di Bujumbura, e il direttore del dipartimento “Human Rights watch” dell’Onu, Philippe Bolopion, si è augurato che “il peggio possa ancora essere prevenuto”.