Quell’onta che il verdetto non cancella

di Paolo Graldi
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Mercoledì 11 Febbraio 2015, 23:49 - Ultimo aggiornamento: 16 Febbraio, 08:53
Condannato. Gravi le colpe accertate per il disastro della Costa Concordia, confermato il rosario di accuse, omicidio e lesioni colpose, abbandono della nave, naufragio e false comunicazioni. L’impianto accusatorio tiene in ogni sua parte, la pena inflitta no, taglia dieci anni rispetto alle richieste della Procura. Come se tutto fosse vero e verificato ma anche troppo gridato, quasi esagerato nelle pretese sanzionatorie; insomma, un processo che ha risentito di un’inevitabile amplificazione mediatica e però che ha forse ritrovato una sua misura e un suo equilibrio meditato nel momento alto e delicatissimo del giudizio.

Dovevano essere 26 gli anni di carcere per i pubblici ministeri. E il carcere subito: pericolo di fuga. Di qui l’amarezza dei colpevolisti ad oltranza per il mancato accoglimento di una richiesta tanto pesante. Di qui le immancabili polemiche, in attesa di leggere le motivazioni che meglio spiegheranno il percorso giuridico del collegio. Il quale sembra essersi almeno in parte sottratto alle fortissime suggestioni accusatorie, soprattutto, alla richiesta di una pena che di fatto rasenta l’ergastolo.



Certo non mancheranno i paragoni con altre vicende, era forte il coro di chi invocava pene esemplari, (ma le pene non devono mai essere esemplari!) s’alzeranno lamenti da chi invocava il colpo di maglio, del resto racchiuso nella cavalcata oratoria della requisitoria multipla della pubblica accusa. Cade e fa un bel tonfo il pericolo di fuga, dice il tribunale di Grosseto; la richiesta dei pm che lo volevano in carcere già da ieri sera si spegne insieme alla suspence della ultima parte del verdetto, letta dopo una ora di elencazioni di riferimenti ai codici.



L’imputato ha seguito tutto il processo, non ha mostrato propensione di sottrarsi al giudizio e poi il carcere non può essere espiazione preventiva di una pena che non è ancora definitiva. Citata qui con insistenza dottrinaria la Costituzione, caso abbastanza raro se si annusa l’aria che tira in certe aule di giustizia. E poi, soprattutto, il sollievo per la sentenza in sé, nella sua parte più intensa e pregnante: 16 anni più un mese di carcere, interdizione dai pubblici uffici e fra cinque anni (questo è davvero stupefacente) potrà tornare a guidare una nave. Lui, l’imputato unico (altri hanno patteggiato e se la sono cavata con poco) non era in aula, se ne è andato febbricitante quando i giudici si sono ritirati per decidere.



Da un block notes scarabocchiato con grandi caratteri ha letto la sua ultima difesa, annaspando tra parole più grandi lui: «Anche io sono morto un poco quella sera…». Segue singhiozzetto e lacrima: «Basta così!». E si tace. Prima, però, si era lamentato per un processo mediatico. Certo che si è pentito, dice adesso, ma nel silenzio della sua coscienza: «Il dolore non va esibito per strumentalizzarlo». Niente «capo cosparso di cenere per esibire i propri sentimenti». Lui il dolore lo ha condiviso con dei naufraghi, a casa sua. Infine, il suo stato d’animo di oggi: «Non si può chiamare vita quella che sto vivendo».



Ma 32 morti, 200 feriti, 2500 naufraghi lasciati su quella balena d’acciaio spiaggiata per miracolo su una roccia davanti al porto dell’isola del Giglio rendono impossibile, quasi blasfemo, ogni paragone. I traumi subiti quella tragica notte del 13 gennaio 2012, sono fantasmi invincibili per chi si è salvato. Se ne trova una traccia ragioneristica nel lunghissimo elenco letto dal presidente Pugliatti, l’elenco delle vittime che andranno risarcite, quelle rimaste con ancora il conto aperto, mentre l’85% delle altre ha chiuso da tempo la partita con gli armatori. Anche la presidenza del Consiglio e qualche ministero tra le parti civili e una manciata di euro andrà pure al comune del Giglio.



Cifre che sanno di spiccioli se confrontate con quel che gli abitanti dell’isola hanno dato, dispiegato, profuso in due anni e soprattutto la notte in cui capitan Schettino, euforico anche per la muliebre compagnia d’occasione, sfiorava contro ogni regola la costa per l’insensato “inchino” a un collega che manco ne sapeva niente. Restano comunque indelebili nella memoria l’abbandono della nave, le bugie a fiotti, le stupide rassicurazioni all’equipaggio e ai passeggeri ormai consapevoli dell’imminente e spaventoso rischio di finire inghiottiti dal mare. E lui, all’asciutto, facendo spallucce a chi dalla capitaneria di Livorno gli intimava di «risalire a bordo, cazzo».



È sperabile che da quella notte la Costa Concordia (che parola sprecata, qui) abbia insegnato qualcosa a tutti: c’è in quel fatto qualcosa che ogni giorno, in tanti ambienti, viene riprodotto come manifestazione di una cultura dell’omaggio al potente, come scorciatoia verso l’asservimento e la benemerenza a buon mercato. Schettino non è solo un imputato che sarà chiamato a pagare colpe gravissime: è una tipologia di uomo, di capo che in divisa s’esalta e usa come suo quel che suo non è.



La tragedia della Concordia, col suo comandante in Ray-Ban e con i riccioletti sulle spalle che va alle feste in white a Ischia, s’illumina di selfie e tiene lezioni alla Sapienza sul “controllo del panico” (incredibile) diviene una metafora italiana, brutta, scomoda, che il Paese paga carissima. Come una sentenza infinita.