Russian roulette, dal finalista di Masterpiece una fuga disperata in un non-luogo

Russian roulette, dal finalista di Masterpiece una fuga disperata in un non-luogo
di Carmine Castoro
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Mercoledì 27 Maggio 2015, 06:31 - Ultimo aggiornamento: 10:08
Un puzzo che si spande su un pianerottolo. Puzzo di morte, di marcio, di incomprensione declassata al più triste oblio. E si diventa un cartoccio oleoso e maleodorante, pur in mezzo alla gente che ti abita accanto. I vicini, si sa, intervengono solo se sentono l’incombere di qualcosa di strano, un peso sulla loro indifferenza colpevole. E allora scatta la finta procedura della cura e della tribolazione. Una porta viene sfondata. Ognuno si ricorda di un ragazzo solitario che nessuno si è mai preso la briga di conoscere a fondo. Lo zelo dei pompieri. Le luci di una lampada quasi poliziesca che illuminano un corpo che nessuno sa, che nessuno voleva. La lotta contro il tempo per la salvezza “fisica”, che arriverà. L’anima che resta appesa al nulla, come i manifesti dei divi di Hollywood ben stirati alla parete della sua stanza da letto.



Comincia così questo “Russian roulette” di Lilith Di Rosa, giovane autore romano finalista al talent per aspiranti scrittori “Masterpiece” su Rai3. Ansia e aria satura di angoscia. Poi una ragazza che scopre le memorie del protagonista. E le legge al lettore per dare un senso a quelle spoglie trascinate su una barella ma ancora flebilmente, disperatamente legate alla vita. Un po’ autoterapia, un po’ j’accuse, diario intimo e testamento morale, è la storia di un giovane che per dimenticare un amore finito alle ortiche decide di ingozzarsi di spazi e di novità, di incursioni nel selvaggio mondo e di briciole che sfarinano la coscienza. Amsterdam, rifugio e dannazione.



Lavoretti occasionali, brande rancide in ostelli da pochi euro, discoteche per dannati e birre e alcol per prendere a sassate i ricordi, nostalgie di felicità, e l’urto coi “padroni” veri, quelli che ti trovi a ogni angolo di strada, quelli che ti cacciano se non paghi l’affitto, che vogliono sottomissione e non lavoro salariato, che non ti guardano bene se vesti di stracci e porti le ecchimosi addosso di un presente che ti pesta. Giornalmente.



Autobiografia di un teenager reietto, di uno “scarto” del mondo degli affetti, di un ectoplasma che urla dolore e voglia di resistere, ma anche traccia e metafora profonda di come vanno le relazioni oggi. Con le cose, con i simili, con se stessi. Isteria, psicosi, i baratri della droga, l’eroina che annienta, e tante “eroine” da avventure fuggevoli sotto una falce di luna che ti perfora e che non danno calore e colore a una vita che avvizzisce. Tutto trama a spezzare le trame espressive del protagonista, ad assorbirlo nelle sue luci intermittenti, a trasformarlo in un termostato dove socialità, valori condivisi, finanche le più elementari forme di progettualità, sono accesi e spenti alla bisogna, e come perennemente estradati, involontariamente sceneggiati, dimidiati fra ruolo e anima, funzione e partecipazione. Il ragazzo che fugge in Olanda per scordarsi Roma e la famiglia diventa pellegrino, profugo, utente dell’umano consorzio.



Libro simbolo della depressione, quella vera, che può essere rappresentata come una orlatura, una linea d’ombra che tratteggia la vicinanza, e frequentemente la sovrapposizione, fra due aree emozionali e comportamentali ben precise. Da un lato, l’infondatezza del nostro essere, la tragicità della condizione umana, la malinconia che sa di un infinito irraggiungibile, la fragilità di ogni nostro apparire e dire. Dall’altro, un sentimento di esclusione, di precarietà che sa di lotta per la sopravvivenza, uno stress psicologico incombente dettato da bisogni insoddisfatti e frustrazioni.



La prima mappa, se così possiamo definirla, insiste sul lato oscuro ma incoercibile della nostra ontologia profonda. Fattore altamente “depressivo” per via dell’assenza di garanzie, di paradigmi di salvezza, di certezze sul chi siamo e dove andiamo. La seconda, frutto di meccanismi sociali cooptanti, di dispositivi relazionali, politici e produttivi innescati da un certo modello di sviluppo che da tempo, ormai, sfida e sfibra l’individuo. Il protagonista li incarna perfettamente entrambi.



Soggetto “blasé”, tipico della contemporaneità, come, citando Simmel, ricorda Zygmunt Bauman in un suo ultimo imperdibile carteggio con Ezio Mauro dal titolo “Babel” (Laterza) - che fa seguito all’altro libro a quattro mani, sempre per i tipi della prestigiosa casa editrice barese, del 2014, “Sesto potere” con David Lyon -; quell’uomo, cioè, al quale le cose stesse “appaiono con un tono sempre piatto e grigio: nessun oggetto merita di essere preferito rispetto a un altro”: un umore ostaggio di “un’economia monetaria completamente interiorizzata” che allontana e fa disprezzare, che agghiaccia e frantuma.



La condanna al non-luogo, insomma, che si rivela in tutta la sua tragicità, non solo geografica. Poiché non è solo il recinto anonimo e spersonalizzante di cavalcavia, luoghi di spaccio, alberghetti e bistrot. Non sopprime solo nel consumo e nella folla le diversità e le radici di ciascuno preso nella sua irripetibilità. Esso è lo smarrimento sempre incipiente, l’“assenza” che traluce, lo scarto che incombe fra un senso possibile e quell’arido imitare la “parte” che tutti dovremmo avere nella società, e che troppo spesso è sbagliata, cariata.



E’ l’eterogenesi dei fini della Società Immaginaria: per troppo melting pot di stili a bassa frequenza di referenti reali, per troppa anestesia da spettacolo, per sovrabbondanza di imposizioni del mercato trattate da “bisogni”, abitiamo una terra di nessuno che non ha più i connotati tradizionali della comunità, del “villaggio”, e l’incenso e l’oro della multimedialità - altra divinità senza altare - ci rifrange contro, in mille schegge, la nostra solitudine acuita e dolente.



Non a caso il personaggio della “roulette russa” di Di Rosa guarda spesso il cellulare e le email nella speranza che qualche click, qualche lucina accesa nella Posta testimoni la sua presenza. Ma cosa vuoi trovare se sei un cumulo di schegge in una landa fintamente cosmopolita di uomini-coccio, di uomini-ombra? Sempre Bauman in “Babel” ci dice della Rete che è “l’estensione del sé; o una corazza in cui l’Io si avvolge per la propria sicurezza: una nicchia a proprio uso esclusivo che l’individuo si ritaglia nella speranza che sia rifugio sicuro dallo stordente, inospitale e forse – chissà?! – ostile mondo non connesso.



La rete è una replica elettronica della “comunità recintata” chiusa da muri concreti, in difesa dal “mondo esterno”, quel mondo che – a causa dell’erosione o della perdita delle capacità necessarie per attraversarlo (e per viverci dentro), magari mai apprese – diventa troppo spaventoso per rischiare il viaggio di esplorazione”. Ed è qui il disastro della comunicazione. Se nemmeno in quel grembo di pixel, in quell’utero artificiale, si trovano contatti e conforto, ma solo una lugubre distesa di silenzio e di abbandono, che succede? Succede quello che capita al protagonista. Di abbarbicarsi a pochi bocconi di serenità, di divorarseli, per fare indigestione di un’inadeguatezza incolmabile e di una verità che non arriva mai, per poi rimettersi in cammino come un fantasma che sposterà il vapore dei suoi poveri contorni su un’altra strada, in un’altra nazione, magari, su altri cuscini senza sonno, di sicuro.



Lilith Di Rosa vive a Roma, dove lavora come operatore televisivo. “Russian roulette” è il suo primo romanzo.



Lilith Di Rosa “Russian roulette” (Bompiani, pagg. 142, euro 12)