Strage di bambini in Pakistan: è un falso la foto della scarpina insanguinata divenuta simbolo sui social

Strage di bambini in Pakistan: è un falso la foto della scarpina insanguinata divenuta simbolo sui social
di Giulia Aubry
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Giovedì 18 Dicembre 2014, 11:13 - Ultimo aggiornamento: 19 Dicembre, 21:05
Non è la prima volta che succede. E probabilmente non sarà l’ultima. Ma quando accade con un’immagine così forte, come quella di una scarpina completamente insanguinata e nel contesto di uno dei massacri di bambini più violenti della storia, l’intera vicenda assume contorni ancor più paradossali.



L’immagine drammatica della scarpa del bimbo/bimba “martire” pakistano – come viene definito in molti dei tweet e post che lo hanno riproposto – risalirebbe infatti al 2008 e sarebbe stata scattata in medio oriente, e non a Peshawar martedì scorso.



Facendo, infatti, una ricerca con google immagini, la scarpina compare su wikipedia alla voce (in inglese) “violenza politica palestinese”. La didascalia della foto recita: “scarpa insanguinata di bambino ritrovata ad Ashkelon, città nel sud di Israele, dopo che un missile, lanciato da militanti palestinesi dalla striscia di gaza, ha colpito un centro commerciale il 14 maggio 2008 ferendo gravemente numerosi israeliani, inclusi un bambino e una donna”. Nel luglio di quest’anno è poi ricomparsa nei tweet e nei post che denunciavano – triste ironia della vicenda – le violenze dei bombardamenti israeliani a Gaza, per poi ritornare nella protesta virale nei confronti dei tragici eventi pakistani.



Il dramma è senza dubbio il fatto che la foto esista, che ci siano bambini (indipendentemente dalla loro appartenenza) che possano essere uccisi in modi così brutali. Ma è drammatico che la “viralizzazione” delle atrocità privi l’immagine del suo valore di testimonianza. Se è vero che questa scarpa può assurgere a simbolo della violenza assurda indipendentemente dal contesto e pertanto suscitare giusto sdegno e condanna, è anche vero che la privazione di ciò che gli anglosassoni chiamano accountability finisce per rendere tutto allo stesso tempo vero e non vero, ingenerando un clima di sospetto o di passiva accettazione di quanto accade nel mondo.



Con l’esplosione dei social media e delle nuove conflittualità anche a carattere terroristico, e al contestuale aumento della difficoltà di verificare fonti e credibilità delle informazioni nel web 2.0, abbiamo assistito a ogni forma di alterazione della rappresentazione e della percezione della realtà. Un fenomeno che, pur partito con spirito di denuncia di crimini atroci, ha finito poi con l’appiattire ogni situazione attraverso una spettacolarizzazione del dolore che, nei fatti, lo priva di un senso.

Grandi filosofi e sociologi, negli anni, si sono interrogati sul dilemma dello spettatore che, di fronte, a queste immagini viene colpito a livello emotivo, ma non sa cosa fare di concreto per aiutare quelle persone e si trova a vivere in una vera e propria condizione di “crisi della pietà”.

Oggi, i social media hanno contribuito al superamento – ma in termini negativi – di ciò. Lo spettatore, o ancor meglio il social-addicted - può infatti condividere l’immagine e, in questo modo, sentire di aver fatto qualcosa. Ma la rapidità del mezzo, la superficialità delle sue rappresentazioni lo portano a non porsi alcuna vera domanda su quanto condivide.



Come diceva il filosofo francese Pierre Bordieu, la foto non è nulla senza la didascalia che dice cosa si deve leggere”. Oggi potremmo parafrasarlo osservando che “la foto non è nulla senza il testo (ancor più breve della didascalia) di un tweet o di un post”, e – tornano a citarlo – non possiamo fare a meno di notale come, spesso e ancor più rispetto al passato, tali frasi contribuiscano a creare “leggende vere e proprie, che fanno vedere ciò che vogliono”