Luca Micheletti dirige Aiace al Teatro Greco di Siracusa: «Baritono, attore, regista?
Sono solo un tipo un po' all’antica»

L’artista, che ha cantato diretto dal maestro Muti e recitato per Shammah, firma l’Aiace che il 10 maggio apre la stagione del Teatro Greco di Siracusa: «In passato per andare in scena tutti sapevano fare tutto». In programma dal 10 maggio al 14 luglio anche Roberto Bolle and Friends

Luca Micheletti, 38 anni, in Aiace, dal 10 maggio al Teatro Greco di Siracusa
di Simona Antonucci
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Sabato 4 Maggio 2024, 16:47

Luca Micheletti è baritono (Don Giovanni diretto da Muti, quest’estate sarà in Bohème e Carmen all’Arena di Verona e nel 2025 debutterà al Met), attore (Molière con la regia di Andrée Ruth Shammah), regista di prosa (al Piccolo) e lirico (a ottobre firmerà, per l’Opera di Roma, l’allestimento di L'ultimo viaggio di Sindbad, musiche di Silvia Colasanti), ma anche saggista, traduttore e drammaturgo. E dal 10 maggio farà confluire molte delle sue competenze nella tragedia di Sofocle, Aiace, che inaugura la stagione di rappresentazioni classiche al teatro Greco di Siracusa: Micheletti, 38 anni, sarà regista, interprete e anche musicista, dato che in scena, un coro e un ensemble eseguiranno una partitura di Sollima che si inserisce drammaturgicamente nella narrazione.

«Come faccio? A me sembra di fare un mestiere solo, declinato in varie forme. Ho semplicemente approfondito la mia passione per il teatro, guardandolo da altre prospettive. Compresa quella musicale. In famiglia siamo tutti attori, da generazioni. Il mio apprendistato è cominciato così, da bambino. È come se, nella vita, non avessi fatto altro», spiega durante le prove dello spettacolo che apre il festival dell’Inda, kolossal dell’antico da 170mila spettatori, con traduzione in simultanea per gli stranieri.

In programma, dal 10 maggio al 29 giugno tre rappresentazioni classiche: oltre alla tragedia di Sofocle firmata da Micheletti (nella traduzione di Walter Lapini), Fedra (Ippolito portatore di corona) di Euripide, con la regia dello scozzese Paul Curran, e Miles gloriosus di Plauto, mai rappresentato prima al Teatro Greco, con la regia di Leo Muscato e Paola Minaccioni protagonista. Il 5 e 6 luglio, il ritorno di Giuliano Peparini che presenta “Horai. Le quattro stagioni”, con protagonisti Eleonora Abbagnato e Giuseppe Sartori, e il 14 luglio, per la prima volta al Teatro Greco di Siracusa, il Gala Roberto Bolle and Friends.

Ad accendere i riflettori sulla 59esima edizione, l’avvicendarsi di due uomini e di due mondi: Aiace che morendo seppellisce l’eroismo omerico e Ulisse che avanza al centro di un desolato sito archeologico dominato dallo scheletro del guerriero, a rappresentare il nuovo che avanza, l’astuzia che prevale sulla forza, la perdita dell’innocenza.

All’incontro con Aiace come è arrivato?

«Ho ricevuto un invito. L’Inda mi ha contattato per offrirmi questa regia, proprio in virtù del mio percorso poliedrico da teatrante. Del resto la iperspecializzazione in epoca antica non esisteva, l’attore era un performer a 360 gradi. Sono arrivato qui dopo l’Arena di Verona. E pensavo di aver assorbito quell’emozione. Ma l’abbraccio di pietra di questo emiciclo è unico, sembra quasi un teatro da camera. C’è qualcosa di metafisico. E siccome a teatro cerchiamo di ricreare l’infinito con mezzi finiti, direi che questo luogo aiuta».

Come si propone una tragedia di Sofocle a un pubblico variegato e internazionale?

«Penso che ci sia un potere magnetico nel classico che di suo catalizza l’attenzione e innesca qualcosa di speciale. Il teatro torna rito. E gli spettatori tornano a essere comunità e ragionano su chi sono. Io non sono per abbassare l’asticella, dando per scontato che uno spettatore meno preparato debba essere messo di fronte a un prodotto non raffinato. Sarei un tramite falsato se mi proponessi come facilitatore».

Il testo va tradotto e adattato: come ci ha lavorato?

«Il testo è rispettato salvo qualche taglio strutturale che aiuta a stare entro tempi compatibili. Saranno due ore in cui ci immergiamo in un mondo sospeso. La traduzione è dicibile ma non abbassa il testo di partenza, anche se il linguaggio rituale è restituito con le parole di oggi».

Il suo Aiace che cosa racconta?

«Un mondo che muore.

Non si vedranno le porte di Troia, ma una sorta di grande sito archeologico in cui la civiltà abbandona il suo prima e celebra un mondo nuovo dove non c’è più posto per gli eroi. Aiace cerca di sollecitare gli spettatori con immaginari conosciuti per calarli dentro una tragedia della parte oscura, della follia. La scena evoca e poi confonde: è una sorta di trappola. Del resto, come si fa a creare un’ambientazione storica di una storia che non è mai avvenuta come la guerra di Troia? Qual è il tempo del mito? Non certo quello che Hollywood ha deciso di raccontarci».

Nel panorama artistico contemporaneo convivono interpreti super specializzati (chi canta solo musica barocca e chi danza unicamente il repertorio del Novecento) e registi che abbracciano tutti i linguaggi: lei, che la multidisciplinarietà l’ha trasformata in carne e ossa, che ruolo si è dato?

«Non saprei assecondare un approccio settoriale anche perché il teatro è multidisciplinare per la sua sostanza. Chi fa teatro deve assorbire diversi saperi, conoscere il funzionamento di molti dispositivi e tenerli sotto controllo tutti, altrimenti si rischia la sterilità. Io mi muovo con molta umiltà, soprattutto quando mi addentro in territori dove mi sento in avanscoperta. Nell’opera lirica sono arrivato relativamente tardi, ma faceva parte della mia vita anche prima. Il cammino è lungo prima di avere qualcosa da dire».

Qual è stato il suo percorso di studi?

«Un punto di partenza è stata la mia famiglia, i miei fratelli, tutti siamo in palcoscenico, con i quali ho condiviso i primissimi rudimenti. Poi, come è giusto che sia, si mette il naso fuori. Un dottorato, da filologo per far respirare il mio mondo, contaminandolo con aria nuovo. Ma il percorso di un artista è fatto soprattutto di incontri».

Muti?

«Ho avuto un grande maestro di canto, Mauro Malagnini. L’ho incontrato per prepararmi a un film di Bellocchio ed è Mauro che ha intuito le mie potenzialità. Ma è a Muti che devo gli insegnamenti musicali più preziosi perché è anche un uomo di teatro. Ha sempre cercato di tradurre quello che la pagina musicale racconta, di trasmetterne il significato drammaturgico. Il teatro d’opera è pur sempre teatro. E Verdi i suoi cantanti li chiamava attori. La scuola recente ha sempre messo la musica davanti a tutto. Ma quella musica, poi, va interpretata».

Racconti la sua dinastia di guitti.

«Erano compagnie dove tutti facevano tutto, a qualsiasi età. Del resto, la figura del regista, in passato, non era centrale, anzi non esisteva. Mio padre mi ha tramandato quel senso di avventura, gli ultimi momenti dei Carri di Tespi, quei teatri mobili, in legno, che venivano montati nella piazze e poi caricati su carri itineranti. Un’eredità assorbita poi dai teatri di ricerca, l’avanguardia del Settanta che ha restituito quel mondo sotto un’altra luce. Mio fratello ha una compagnia che ha conservato il nome dei guitti. E di tanto in tanto continuiamo a collaborare. È a quel passato che sento di appartenere».

Torniamo alle prime battute del nostro incontro: baritono, regista, attore... Se dovesse presentarsi come metterebbe in fila queste parole?

«Farei fatica e individuare una gerarchia. Mi viene spontaneo metterle in ordine cronologico. A 20 firmavo già le mie prime regie e istintivamente mi sento un attore che canta. Musicista della voce anche quando recito. Il lavoro che ho costruito a Siracusa, dove ho chiesto a Sollima un trattamento musicale, si fonda su questa mia inclinazione. Che poi non è mia. Perché la tragedia si genera dallo spirito della musica». 

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