Pupi Avati racconta Roma: «L'America dei miei sogni era chiamata Cinecittà»

Pupi Avati racconta Roma: «L'America dei miei sogni era chiamata Cinecittà»
di Pupi Avati
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Lunedì 29 Maggio 2017, 11:17 - Ultimo aggiornamento: 2 Giugno, 11:15

In terza classe si stava stretti, ma alla stazione di Bologna arrivammo con i tempi molto larghi. Non volevamo perdere l'occasione di vedere Roma, non volevamo rischiare che un banale contrattempo ci impedisse di raggiungerla in occasione dell'Anno Santo. Era il 1950 e in quella terza classe, con mia madre appena diventata vedova, due fratelli, Padre Anastasio, francescano, nel ruolo di guida non soltanto spirituale, si respirava l'aria febbrile e l'eccitazione dei fagottari che per la prima volta vanno verso il mare. Nelle sporte, mia madre aveva messo acqua e limoni, panini, aspirine, asciugamani. La spiaggia era di asfalto e la arammo da nord a sud, con i nostri piedi, visitando tutte i monumenti e le basiliche della città in appena 12 ore.

Fu non lontano da San Paolo che vidi come un'apparizione quella insegna mitica, in latta blu, con la scritta Cinecittà. Allora pensavo che Cinecittà fosse nient'altro che il luogo fisico in cui vivevano attori e registi. Tornai a Bologna, alla mia quotidianità, alla mia preadolescenza, ai miei sogni dell'epoca tutti rivolti all'America, al cinema e alla letteratura di quella terra così distante. Ho pensato invece spesso che su quella gita capitolina senza taxi né macchine e sul clima della Roma di quel periodo mi sarebbe piaciuto fare un film, una commedia scatenata con Aldo Fabrizi. All'epoca facevo altre riflessioni e ignoravo che poco tempo dopo, sarebbe stata la mia stessa esistenza a tingersi di commedia. Da ragazzo lavoravo per una notissima azienda di surgelati. Ero il direttore vendita in due regioni attigue, le Marche e l'Emilia Romagna e a forza di percorrere le provinciali mi ero fatto conoscere come un piazzista di primo livello. Non mi chiamavano il re del bastoncino per puro vezzo, ma tra una trattativa e l'altra, si inserì Fellini. Vidi La Dolce vita e d'un tratto iniziai a proiettarmi sull'esigenza del ritorno a Roma e sul cinema come obiettivi vitali. Negli Stati Uniti non ero riuscito ad andare e così trasformai la mia America virtuale nelle concreta possibilità di raggiungere Roma.

LA PENSIONE
Convinsi mia madre a vendere l'ultima casa che ci rimaneva a Bologna e a trasferirsi a Roma per mettere in piedi una pensione, la For You, in quel centro storico in cui gli artisti si dividevano tra Canova, Rosati e Via Margutta. Con il mio più caro amico dell'epoca, Gian Vittorio Baldi, mettemmo anche in piedi il progetto di un film. Si sarebbe intitolato Balsamus, l'uomo di Satana. Ne parlammo a lungo, ma intanto, tra un'andata e un ritorno, continuavo a far tappa a Bologna sottoponendomi a viaggi massacranti. Baldi non avrebbe dovuto sapere del mio impiego nell'azienda di surgelati e così quando arrivò il momento dell'appuntamento decisivo, gli mentii. Ci saremmo dovuti vedere alle dieci di mattina, partii all'alba da Bologna e una volta giunto in Via della Scrofa, venni accolto da una segretaria che con mille scuse mi annunciava che il dottore aveva avuto un impedimento improvviso e mi avrebbe potuto ricevere solo dopo cena, a casa sua.

Nel primissimo pomeriggio di quel giorno però avrei dovuto trovarmi alla Standa di Modena per vendere una partita di spinaci e senza muovere un ciglio mi rimisi alla guida della mia Giulia. Arrivai a Modena, risolsi in pochi minuti la pratica e ripresi la strada di Roma dove arrivai che era già notte per parlare con Baldi. Alla fine l'incontro non produsse frutti e così per girare il mio esordio e il mio secondo film, Thomas e gli indemoniati, mi feci aiutare da un mecenate bolognese che- solo per dare l'idea della credibilità dell'ambiente- non volle apparire ufficialmente- ma solo come Mister X. L'ignoto spese nell'impresa 270 milioni delle vecchie lire e si ritrovò con due opere del tutto rifiutate dal pubblico. «Te devi cambià cognome» mi dicevano a Roma quando tornavo a trovare mia madre: «C'hai due cadaveri che ti accompagnano, un altro film non te lo faranno fare mai». Furono due catastrofi e l'aria per me a Bologna, tra un lazzo e uno scherno generalizzato, si era fatta irrespirabile. Rassicurai i miei amici e dissi loro: «Torno da Mister X». E lo feci: «Ho una terza idea» dissi e lui «anche io, liberarmi subito di lei». La crudeltà e la spietatezza della provincia erano violente, mi davano tutti del fallito e così una notte mi misi al volante di una Mini Minor e a Roma andai a vivere definitivamente trovando e scoprendo di giorno in giorno quella che ancora non sapevo essere la sua più grande potenzialità e il suo più grande pregio: l'indifferenza a tutto e a tutti. Gli aspiranti cineasti consumavano i marciapiedi con i loro soggetti e nessuno osava chiamarli falliti. Diventai amico di una donna meravigliosa, di una generosità senza eguali, Laura Betti e iniziai a frequentare la sua terrazza di Via dei Coronari con mia moglie. Era una casa, quella di Laura, in cui era facile incontrare Moravia e Pasolini, Bertolucci, Bellocchio o Enzo Siciliano.

A me e a mia moglie, inseriti in questo contesto seducente per grazia divina, pareva di sognare. Eravamo estranei all'ambiente, semplici spettatori, ospiti invisibili. La mattina dopo, quasi sempre, pappagallescamente, mi ritrovavo a ripetere le frasi dei grandi intellettuali per imitarli, in assoluta solitudine. Quando una sera provai a dire una cosa del tipo «Io ho votato Dc» mi accorsi per la prima volta di essere guardato. Le persone su quella terrazza si accorsero all'improvviso di me rivolgendomi sguardi attoniti, di grande imbarazzo. In quell'istante produssi quell'emarginazione che ancora oggi orgogliosamente mi accompagna e che mi è ancora necessaria per tenere in vita un'identità. Un anticorpo contro l'omologazione. Una protezione per la mia autonomia. Ero abbattuto e destinato a far di nuovo ritorno a Bologna, ma accadde un miracolo. Dopo il rifiuto di Mister X avevo non so come convinto Giovanni Bertolucci, cugino di Bernardo e produttore, a darmi ancora fiducia e a produrre il mio terzo lungometraggio La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone. La mia idea, ben prima dell'avvento di Fantozzi, era quella di lanciare Paolo Villaggio. Bertolucci mi disse «Va bene, ma devi portarmi tutte le pagine del copione firmate dall'attore». «Non c'è problema» risposi e telefonai a Villaggio che però all'improvviso sparì. Mi appostai sotto la sua casa dei Parioli e telefonai invano senza sosta. Era chiaro che quel film non voleva farlo più.

VILLAGGIO E TOGNAZZI
Un amico mi diede una dritta: «Ho letto su Il Messaggero che domenica Villaggio è a Torvaianica a casa Tognazzi». Presi la mia macchinetta e raggiunsi il Villaggio Tognazzi per stanare l'altro Villaggio. Mi fecero entrare e dietro la porta, in un lampo, vidi tutto il cinema italiano di allora, Paolo Villaggio incluso. Ci parlai e confermai i miei sospetti: lui il film non voleva più farlo. Abbandonai il copione su un tavolino e tornai a Roma convinto che fossero tramontate tutte le mie velleità artistiche e pronto a lasciarla per sempre. Non avevo una lira e mi avevano persino staccato il telefono. Faticai a farmelo riallacciare e un giorno, tornando a casa, trovai mia moglie sull'uscio: «Ha chiamato uno che dice di essere Tognazzi e ha lasciato un numero di Parigi». Pensai a uno scherzo crudele, composi il numero che avevo lasciato e incredibilmente, dall'altro capo del filo, trovai il vero Ugo. Franca Bettoja, sua moglie, gli aveva messo per sbaglio in valigia il mio copione al posto di uno script di Alberto Bevilacqua e lui l'aveva letto e gli era piaciuto. Fece il mio terzo film a titolo quasi gratuito e la mia vita cambiò per sempre. Da allora vivo a Roma e mi sento più romano degli stessi romani. Non è cambiato il mio amore per la città e anzi, forse è aumentato perché la meraviglia di Roma prescinde da una buca o dal numero dei topi che c'erano, forse più numerosi, quando arrivai nel 1950. Nei confronti dei romani, timidi descritti erroneamente come aggressivi, provo riconoscenza. Se superi la timidezza e li conosci davvero, sai che l'ipotesi di perderli confina con un vero e proprio peccato Capitale.
 
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