Pietro Germi, l'artista fustigatore dei difetti capitali

Pietro Germi, l'artista fustigatore dei difetti capitali
di Carlo Nordio
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Domenica 28 Maggio 2017, 10:59 - Ultimo aggiornamento: 30 Maggio, 20:01
Forse il complimento più bello glielo fece il pentito Tommaso Buscetta, che riconobbe in Giovanni Falcone la calma e la forza tranquilla della giustizia che aveva intravisto, anni prima, nel protagonista del film di Germi In nome della legge. Questo personaggio, un giovane magistrato che cerca di contrastare la criminale arroganza mafiosa, era in effetti lo specchio del regista.

Pietro Germi, genovese classe 1914, dedicò i suoi primi film all'impegno civile di studiare, comprendere e descrivere i difetti capitali del nostro meridione. Lo fece in modo originale, seguendo probabilmente l'indicazione di Anatole France: con l'ironia che rende sopportabile la vita, e la pietà che ne rende sacre le disgrazie.

Germi non fu un un regista di cosiddetta denuncia sociale, o almeno non fu solo quello; fu anche attore, produttore e sceneggiatore; collezionò premi nazionali e internazionali a Berlino, a Cannes a Mosca e a Hollywood. Fu un eclettico curioso della natura umana e delle sue reazioni secondo i contesti ambientali. La sua fama, almeno agli inizi, fu legata appunto alla terra siciliana, la più adatta a rappresentare le contraddizioni esasperate dei pregiudizi e delle superstizioni. Divorzio all'italiana e Sedotta e abbandonata sono insieme un quadro fosco di caratteri sanguigni e di tabù ancestrali, radicati in un sistema giuridico che giustificava l'uccisione della moglie infedele, e considerava la violenza sessuale come un'intemperanza mascolina spesso giustificata da un'insidiosa provocazione femminile. Il dibattito che si aprì su questi film, e sugli episodi reali che li avevano ispirati, contribuì a riformare, alcuni anni dopo, il diritto di famiglia, e ad abolire l'infame anacronismo del delitto d'onore.

Nel 1965, forse per pareggiare il bilancio dei difetti nazionali, rivolse l'attenzione al Nord e alla provincia veneta, che stava uscendo dalla miseria agricola per tuffarsi in un'industrializzazione dalla quale sarebbe emersa ricca e trasformata. Germi strapazzò con equanime rigore borghesi viziosi e avidi contadini, ipocrite bacchettone e preti untuosi, giornalisti succubi e avvocati compiacenti. Sapeva di trafiggere una cittadina che lo aveva accolto con sorrisi e complimenti: girò le scene a spizzico e fece circolare falsi copioni, affinché nessuno indovinasse il garbuglio boccaccesco degli episodi tratti da vicende reali. Alberto Lionello si finge impotente per appartarsi con la moglie di un gelosissimo primario. Gastone Moschin si innamora di una strepitosa Virna Lisi, barista dal passato ambiguo, ma viene costretto dalla tonaca del monsignore e dalla spada della legge a rientrare in famiglia. Infine, un gruppo di satiri seduce una compiacente e smaliziata minorenne, il cui padre, un villico ubriacone, ritira la querela in cambio del denaro e dei favori di una rispettabile matrona.

TRIONFO DI INCASSI
Fu un trionfo di incassi e di premi: la Palma d'oro a Cannes, ex aequo con Un uomo e una donna di Lelouch, fu il riconoscimento più prestigioso. Treviso si riconobbe nel film, e reagì arrabbiata. Ma con il tempo perdonò alla genialità del regista la sua satira corrosiva: in fondo non erano difetti tanto gravi. Forse perché il carattere veneto, come il prosecco, è gioioso e poco aggressivo, incapace di rancori e tendente a un'indulgenza autoironica. Oggi il film è addirittura amato, e suoi protagonisti sono ricordati con nostalgica simpatia.

Germi continuò in questo filone vincente, anche se non potette raccogliere i frutti della sua opera forse più geniale: Amici miei fu ideato da lui, ma realizzato da Monicelli, che ne riconobbe tuttavia la paternità. Alcune scene, e alcune battute, sono entrate nella storia del cinema e persino nel linguaggio. A più di quarant'anni di distanza, gli scherzi bizzarri di un'eterogenea banda di maturi burloni sono ancora di esilarante freschezza. Così, mentre nel Paese sia addensavano le nubi della crisi economica e del terrorismo sanguinario, l'amara ironia di Germi partorì un elogio alla frivolezza disincantata.

Questo distacco quasi aristocratico dall'impegno politico non gli fu mai perdonato.

UTOPIE VELLEITARIE
Perché Germi era tanto lontano dalla bigotteria minuziosa del fideismo integralista quanto dall'impeto tribunizio dei rivoluzionari salottieri. Il suo fondamentale pessimismo ripudiava le utopie velleitarie di tanti intellettuali subalterni alla dominante vulgata marxiana. I comunisti si irritarono, e lo osteggiarono in tutti i modi: con le offese, con il sarcasmo, più spesso con l'oblio. Anche se non era facile ignorare un regista coronato di allori internazionali, e apprezzato persino dalla cupa gerontocrazia del Cremlino, su Germi fu stesa una cortina di silenzio, e talvolta di bugie. Alcuni protestarono. Trombadori scrisse a Togliatti una lettera riservata, sollecitando una conciliazione con il regista. La lettera, che non ebbe seguito, fu pubblicata solo nel 1990. Sono anche questi gli episodi che ancora oggi gettano una luce sgradevole su un partito che non ha mai coraggiosamente denunciato un passato costellato di errori, e anche di stupidità. Ancora peggiore, fu comunque l'acquiescenza servile di critici e intellettuali che si prostrarono agli Ukase del Direttorio: il flagello degli scrittori cortigiani lo fustigò come un paternalistico riformatore velleitario, tanto più pericoloso quanto più vicino, nel cervello e nel cuore, alle reali sofferenze dei deboli e degli oppressi. Il Pci non tollerava un' insidia al monopolio della solidarietà, autocertificata dalla benedizione della cultura dominante: «Extra ecclesiam, nulla salus».

Germi morì nel 74, e non vide la fine di questa Chiesa e di un'ideologia che lui probabilmente disprezzava. E, proprio come Falcone, fu onorato da morto da chi lo aveva combattuto da vivo.

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