La nostalgia dell'acqua, un grido poetico dal Cile di oggi e di ieri

Un'immagine da La nostalgia dell'acqua: donne selk'nam, Patagonia cilena, verso il 1930
di Fabio Ferzetti
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Giovedì 28 Aprile 2016, 21:35 - Ultimo aggiornamento: 1 Maggio, 19:33
Una mappa del Cile lunga 15 metri, tutta di pelle o forse di corteccia, tenuta dall’artista dentro grandi scatoloni come una reliquia. Stampe e fotografie incredibili della vita in Patagonia prima dell’arrivo dei coloni. Una donna oggi anziana, Gabriela («Si sente cilena? - Nooo, mi sento Kaweshkar») che racconta il suo rapporto con l’acqua, l’acqua gelida in cui a 7-8 anni imparò a nuotare e a immergersi. 

E ancora: una delle canoe con cui i nativi pagaiavano a Capo Horn, un piccolo scafo così fragile che sembra fatto di vimini. I corpi decorati degli indigeni, convinti che le stelle fossero le anime dei defunti, dunque capaci di istoriare mappe cosmiche sulla loro epidermide. Il cielo terso del Cile, frugato da telescopi potentissimi, e le acque ancora più trasparenti di quelle isole alla fine del mondo. E poi voci, volti, storie, rimorsi. Non solo dell’800 ma di fine ’900, quando il Cile democratico di Allende diventò la dittatura feroce di Pinochet. 

Una piaga sempre aperta che il regista rievoca frugando tra i ricordi o cercando sopravvissuti e testimonianze, ma fuori da ogni codice del cinema di inchiesta. Perché La memoria dell’acqua, in originale El Botón De Nácar (Il bottone di madreperla), orso d’argento a Berlino 2015, non è solo un documentario lirico e travolgente.

È un poema cosmico per immagini e parole che lega l’acqua e le galassie, i quasar e le isole della Patagonia, la vita possibile negli spazi siderali e le tribù ormai estinte della Terra del Fuoco. Passando, sempre per via acquatica, dagli orrori della colonizzazione alla piaga eternamente aperta del golpe del 1973, fuso in questa divagazione incalzante con la forza perentoria del poema che abbraccia in uno sguardo gli orizzonti più disparati. 

Il bottone del titolo originale è quello in cambio del quale, nel 1830, l’indio Jemmy Button accettò di farsi condurre in Inghilterra e trasformare in un gentiluomo inglese per tornare un anno dopo alla sua terra, disadattato come una versione patagonica e tardiva della principessa Pocahontas (è proprio vero che la Storia non insegna mai niente). Ed è sempre un bottone a unire la parte dedicata agli indigeni e al loro mondo, infinitamente più complesso di quanto capirono i coloni, a quella che invece rievoca gli anni di Pinochet.

Anche se Guzman non è uno storico e procede per intuizioni e analogie. Come quando passa dagli alberi contorti di una foresta ai cavi di una macchina per la tortura. O dai volti incappucciati e misteriosi degli indigeni agli occhi non meno misteriosamente spalancati di Marta Ugarte, desaparecida gettata nell’Oceano ma ripescata miracolosamente intatta e ancora capace di fissare il suo sguardo nel nostro, appunto. Con una delle molte immagini che non si dimenticano di questo film semplicemente unico. 
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