Tutti i difetti del Festival di Roma, dal pubblico alla distribuzione

Una scena di Her
di Fabio Ferzetti
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Lunedì 18 Novembre 2013, 15:15 - Ultimo aggiornamento: 4 Marzo, 15:31
​Quanti film vedremo nei prossimi mesi tra quelli scoperti e proposti dal Festival di Roma? Quali sono riusciti a raggiungere un pubblico apprezzabile, non solo in senso numerico, durante il festival? E che tipo di incontro ha creato il festival tra questi film, i loro autori e il pubblico romano?

Domande ovvie forse, ma dopo una premiazione giudicata da tutti assurda e autolesionistica bisogna tornare a chiedersi per l’ennesima volta quale sia la ragion d’essere del Festival di Roma. Ovvero quali criteri informano le sue scelte e che tipo di obiettivi si pone, perché a giudicare dai risultati «grande è la confusione sotto il cielo», ma la situazione non è affatto eccellente, in barba al vecchio detto di Mao. Come sa chiunque vada al cinema di questi tempi, non solo in Italia ma soprattutto in Italia.

Le sale chiudono, i consumi crollano, il pubblico è sempre più disinformato e demotivato malgrado l’offerta massiccia e continua di novità. E i festival sembrano più impegnati a farsi la guerra che a formare e conquistare spettatori. Sarebbe bello, ad esempio, poter dire che dopo essere stati premiati a Roma il bel film iraniano di Klarash Asadizadeh, Acrid, o Quod Erat Demonstrandum del romeno Andrei Gruzsniczki, sono stati comprati da un distributore o una tv italiana, ma al momento pare proprio di no. Sarebbe ancora più bello sapere che i cinque rapinatori napoletani di Take Five, secondo, spericolato film di Guido Lombardi, o l’irresistibile Amministratore del docu di Vincenzo Marra, stanno per arrivare in sala. Eppure pare proprio che il passaggio a Roma non garantisca l’aumento di visibilità che per un festival dovrebbe essere l’obiettivo prioritario.



Roma è giovane. Questione di prestigio: Roma è giovane, il nome non è ancora un marchio. Ma anche di chiarezza. Ci sono festival più piccoli ma più incisivi perché lavorano su terreni ben delimitati. Il Festival di Roma invece un giorno si sente Venezia (quella di una volta) e un altro si rifà a Toronto. Corteggia Hollywood e omaggia il Grande Autore (defunto), il russo Aleksej German, con convegno e ministro al seguito.



Abbagli. Un po’ finge di giocare in serie A, ma ha pochi titoli per la troppa concorrenza, un po’ si ricorda di dover sedurre un pubblico metropolitano, dunque getta ami a 360 gradi. L’anteprima di Hunger Games e l’ultimo, raffinatissimo film di Jonathan Demme, Fear of Falling, sacrificato chissà perché in CinemaXXI. Un lavoro strepitoso come Her, umiliato dalla giuria («se un film piace a tutti è probabile che non sia interessante», ha sentenziato il presidente James Gray) e una manciata di documentari di tutti i generi e livelli sparsi qua e là. Con strani abbagli, come dare in chiusura e con poche proiezioni l’irresistibile, romanissimo, attualissimoFuoristrada di Elisa Amoruso.

Certo, molti film troveranno comunque la via delle sale. Dal postapocalittico Snowpiercer di Bong Joon-ho, uno dei film migliori del festival, al Venditore di medicine di Morabito. Dagli americani Her e Dallas Buyers Club, allo stesso Tir (distribuito dalla piccola ma agguerrita Tucker) e a Come il vento di Puccioni. Un po’ poco però, inutile nasconderlo.
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