Francesco Grillo
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L'analisi/ Se la conferenza sul clima ha deluso le aspettative

di Francesco Grillo
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Sabato 26 Novembre 2022, 00:19

“Cambiamento climatico e scienza. Sviluppi tecnologici recenti dell’Unione Sovietica nelle tecniche di modifiche del clima”. Si intitolava così un documento che il Darpa (l’Agenzia del Pentagono per i progetti di ricerca avanzati che aveva appena finanziato l’invenzione di un protocollo di comunicazione chiamato Internet) inviò nel 1975 al Congresso degli Stati Uniti. Il rapporto racconta come già a quei tempi ci fosse preoccupazione per alterazioni del clima indotte dalle attività industriali e l’allarme era aumentato dall’ipotesi che i sovietici per primi introducessero tecniche capaci di abbassare la temperatura del pianeta. Il timore era che un sistema pensato per salvare il mondo (o, almeno, la parte di mondo governata da Mosca) potesse trasformarsi in un’arma per indurre glaciazioni e tempeste improvvise altrove. Dopo quasi mezzo secolo, dopo l’ennesima conferenza delle Nazioni Unite a Sharm el-Sheikh, siamo probabilmente costretti a dichiarare il fallimento del tentativo (avviato a Parigi nel 2015) di mantenere il risaldamento globale entro l’1,5 gradi rispetto ai livelli del 1990. E ad ammettere che la strada più efficace per reagire alla manipolazione del clima da parte dell’uomo possa essere una contro manipolazione affidata agli scienziati. La tecnologia esiste ma apre un problema grande quanto quello che chiuderebbe per sempre.

È nelle parole del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Gutierrez, la conferma che il summit sul clima appena concluso in Egitto, abbia prodotto risultati non adeguati alla sfida: «Abbiamo fatto – dopo 15 giorni di incontri tra 40.000 delegati – un piccolo passo avanti»; e, tuttavia, il problema è che le questioni da affrontare, fanno diversi chilometri mentre noi avanziamo di mezzo metro. La dimostrazione dell’inadeguatezza delle conferenze delle Nazioni Unite (Cop) che da ventisette anni si riuniscono per trovare una soluzione al riscaldamento globale, è dimostrata da questo dato: dalla prima Cop che nel 1995 lanciò l’imperativo morale di ridurre le emissioni di anidride carbonica (CO2) in atmosfera, le emissioni sono aumentate ogni anno, mentre ogni anno si firmavano ulteriori accordi. Secondo gli scienziati oltre questo punto ci aspettano scenari di distruzione decine di volte più gravi della pandemia del 2020. Cosa fare?

La possibilità è quella di far ricorso ad uno scenario che solo qualche film di fantascienza aveva osato immaginare. Un raffreddamento artificiale della temperatura del pianeta che sia sufficientemente veloce da bilanciare in tempo gli effetti del riscaldamento che è ugualmente il risultato di attività umane. Le tecnologie per riuscirci esistono già e appartengono ad almeno due diverse famiglie di innovazioni.

Ci sono quelle che puntano alla riduzione delle particelle di CO2; ed altre che invece sono finalizzate a far rimbalzare le stesse radiazioni solari che penetrano le molecole di CO2 ma ne rimangono intrappolate quando sono riflesse dalla Terra. 

Tra le aziende che hanno ormai consolidato le macchine per “sequestrare” l’anidride carbonica (e rivenderla a chi produce, ad esempio, acqua minerale) dall’aria c’è Climework, uno spin-off del politecnico di Zurigo. I costi sono ancora molto elevati (800 dollari a tonnellata di CO2 rimossa) ma scenderebbero per effetto delle economie di scala se sul progetto ci fosse un investimento globale. Tra le tecniche che perseguono il secondo obiettivo, è paradossalmente efficace quella che utilizza – paradossalmente – l’anidride solforosa che è un inquinante che abbiamo dovuto abbattere precipitosamente nei decenni scorsi. Esso ha, però, come riconoscono gli scienziati delle Nazioni Unite che studiano il cambiamento climatico (l’Ipcc), l’effetto di aver rallentato l’innalzamento delle temperature perché respinge le radiazioni solari.

Abbassare artificialmente le temperature risolve una questione e ne apre però almeno altre tre: qual è l’effetto di un ulteriore aggiustamento artificiale di una macchina (quella del clima) del cui funzionamento abbiamo comunque una conoscenza limitata? Chi costruisce e chi controlla una rete di protezione globale che per, sua definizione, ha effetti su tutti? E, infine, non comporta ciò l’“azzardo morale” di ridurre l’urgenza di dover cambiare un sistema di produzione e consumo di energia che non è più sostenibile, per ragioni che vanno anche aldilà della mutazione del clima? Il modello della Stazione Spaziale Internazionale nella quale in questi mesi (ed è un peccato non essercene accorti) astronauti russi e americani continuano a lavorare insieme, può essere l’embrione di una soluzione. 

In uno dei miti più belli, il titano Prometeo ruba a Zeus il fuoco e lo dona agli uomini. Quel regalo fu all’inizio dell’idea di poter domare l’energia; ma anche delle guerre rese possibili dalla fabbricazione di armi di ferro. Le società umane riuscirono però a sopravvivere affiancando sempre all’evoluzione della tecnologia quella dei meccanismi con i quali governavano se stesse. Stavolta, dovremo riuscire ad immaginare forme di democrazia globale che sono indispensabili per controllare le macchine che dovremo usare per salvarci dai nostri stessi eccessi.
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