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L'editoriale/ Fine vita, quanti dubbi sulla “uscita di sicurezza”
Luca Ricolfi
Luca Ricolfi

L'editoriale/ Fine vita, quanti dubbi sulla “uscita di sicurezza”

di Luca Ricolfi
4 Minuti di Lettura
domenica 3 agosto 2025, 00:05
Articolo riservato agli abbonati premium

Di fine vita, suicidio assistito, testamento biologico, eutanasia si è tornati a parlare con particolare intensità nelle ultime settimane. Ad accendere l’attenzione sono stati non solo alcuni recenti passaggi legislativi e giudiziari – in particolare i disegni di legge che il Parlamento, con colpevole ritardo, discuterà a settembre – ma anche gli accorati, commoventi, appelli di alcune donne la cui volontà di porre fine alla loro vita si è scontrata con l’assenza di una legge organica e con le pastoie delle procedure previste dalle leggi vigenti.
Ma qual è l’oggetto del contendere?
Per quel che ho capito leggendo le proposte di legge, fondamentalmente il conflitto è fra quanti vorrebbero estendere il più possibile il diritto a essere aiutati a morire, coinvolgendo il sistema sanitario nazionale e riducendo al minimo i requisiti per esercitare tale diritto, e quanti invece vorrebbero introdurre requisiti stringenti ed escludere il servizio sanitario nazionale,
Nella versione più restrittiva, il diritto al “suicidio assistito”, oltre ad alcuni requisiti ovvi (come la gravità della patologia e la volontà di morire liberamente espressa) prevede che il paziente si sottoponga a cure palliative, sia tenuto in vita da “trattamenti di sostegno vitale” (senza i quali morirebbe), e sia in grado di autosomministrarsi il farmaco letale. Nella versione più permissiva, invece, si consente l’accesso al suicidio assistito anche a chi non dipende da trattamenti vitali, rifiuta le cure palliative, e non è in grado di auto-somministrarsi il farmaco. Quanto al requisito della volontà liberamente espressa dal paziente, alcuni ritengono che siano sufficienti le indicazioni fornite nelle disposizioni anticipate di trattamento (DAT, o testamento biologico), altri pensano che non si possa “somministrare la morte” sulla sola base di disposizioni formulate in un passato più o meno remoto. 
Entrambe le posizioni, quella permissiva e quella restrittiva, hanno le loro buone ragioni. La posizione permissiva difende il diritto all’autodeterminazione e al rifiuto dei trattamenti sanitari, entrambi costituzionalmente garantiti (art. 13 e 32). La posizione restrittiva poggia sulla preoccupazione che, indebolendo sempre di più i requisiti di accesso al suicidio assistito, si finisca per aprire la strada a suicidi indotti dalle pressioni familiari verso quei malati che il welfare domestico non è più in grado di gestire (una preoccupazione forse irrilevante in un paese scandinavo, ma più che comprensibile in Italia, dove lo Stato scarica sulle famiglie l’onere dell’assistenza agli anziani).
Se però esaminiamo da vicino i principali disegni di legge proposti – in particolare quello governativo e quello dell’associazione Luca Coscioni – possiamo notare, in entrambi i testi, una comune presenza e una comune assenza. La comune presenza è quella di una asfissiante burocrazia etico-sanitaria-giudiziaria. Chi vuole essere aiutato a morire è costretto a infilarsi in una trafila estenuante, umiliante, e piena di incertezze. Una trafila che, si noti, non riguarda solo i casi controversi, in cui il dubbio è più che legittimo, ma affligge chiunque, compresi i casi eclatanti e per così dire ovvi di cui si è parlato tante volte (Luana Englaro, Piergiorgio Welby, Dj Fabo, e nei giorni scorsi Martina Oppelli e Laura Santi).
La comune assenza è quella di misure che prendano sul serio i meccanismi di formazione della volontà suicidaria, che non dipende solo dalla gravità della malattia, ma anche dalle condizioni in cui i malati si trovavo a vivere e interagire con gli altri. Anche su questo vi sono state, nei mesi scorsi, testimonianze toccanti, ma di segno opposto. Pazienti come Dario Mongiano, Maria Letizia Russo, Lorenzo Moscon, hanno chiesto di essere ascoltati dalla Corte Costituzionale, allora in procinto di pronunciarsi sul fine vita. Il loro ragionamento ribalta completamente la prospettiva. Anziché chiedere allo Stato di permettere loro di esercitare il diritto alla morte, chiedono allo stato di proteggerli dalla tentazione di ricorrervi. È vero che si tratta di pazienti in condizioni meno estreme di quelle che hanno afflitto i casi più noti, da Englaro e Welby in poi. Ma il loro ragionamento merita attenzione. Per loro quella del suicidio è una tentazione che nasce anche dall’abbandono, dalla mancanza di cure e sostegno. E il concedere il diritto al suicidio rischierebbe di diventare una comoda scorciatoia che lo Stato imbocca perché né lo Stato stesso né la società civile riescono a fare abbastanza per sostenere la volontà di vivere. Se passasse l’idea del suicidio assistito, dice uno di loro (affetto da tetraparesi spastica), “io potrei richiederlo. E non voglio che lo Stato mi dia questa possibilità. La mia vita sarebbe meno protetta perché tutto dipenderebbe esclusivamente dalla mia capacità di resistere al dolore. Sarei lasciato solo, ricadrebbe tutto sulle mie spalle e in alcuni momenti è molto difficile fare affidamento soltanto sulla propria forza di volontà”.
È una mossa paradossale: si chiede meno libertà, per ritrovare la forza di esercitare la vera libertà, che è quella di voler vivere, nonostante tutto e a dispetto di tutto. Un po’ come Ulisse che chiede ai marinai di legarlo all’albero della nave, perché sa che – se fosse libero – cederebbe al canto delle sirene e morirebbe.
Chi ha ragione?
Forse tutti e nessuno. Il suicidio è l’uscita di sicurezza da una condizione insopportabile e non di rado umiliante. Uno Stato civile non può ergersi ad arbitro di chi può e chi non può passare per quella porta. Ma nemmeno può continuare a fare così poco perché non siano troppi a volervi transitare per quella porta.

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