Alessandro Campi
Alessandro Campi

Merkel-Karrenbauer/ L’incapacità dei leader nella scelta del “delfino”

di Alessandro Campi
6 Minuti di Lettura
Martedì 11 Febbraio 2020, 00:05
Ad Annegret Kramp-Karrenbauer (AKK) - che dimettendosi ieri dalla presidenza della Cdu tedesca ha contestualmente rinunciato alla candidatura come Cancelliere - mancava evidentemente il “quid”, come disse una volta malignamente Berlusconi a proposito del suo delfino Angelino Alfano: uno dei tanti che il Cavaliere ha prima scelto e poi personalmente fiocinato, a conferma del fatto che il modo migliore per mantenere il potere consiste nel non cederlo mai.

Laddove il “quid” di un leader, politicamente parlando, può significare molte cose. Sicuramente il senso del rispetto e dell’autorità che si è capaci di trasmettere intorno a sé, premessa necessaria per essere considerati credibili e quindi obbediti. Poi la capacità, da un lato, di guidare con pugno fermo un’organizzazione complessa (e conflittuale) come sono sempre i grandi partiti, e dall’altro, di decidere, con tempestività e intelligenza pratica, soprattutto nelle contingenze controverse.

Aiuta poi l’essere comunicativi ed empatici col prossimo, ma queste – come anche la generosità d’animo o la coerenza con i propri pensieri – sono a ben vedere qualità apprezzabili ma accessorie, dal momento che non sono mancati leader di successo che sono stati arroganti, egoisti e bugiardi.

Mentre sono caratteri certamente indispensabili a un capo politico il controllo delle proprie emozioni (quelli che cedono all’impulsività fanno quasi sempre una brutta fine), la resistenza fisica al lavoro e alle pressioni ambientali, una manifesta ambizione e la caparbietà anche un po’ ottusa nel perseguire i propri convincimenti.

Ad AKK di tutto questo qualcosa di essenziale dev’essere mancato. Al congresso del partito di Amburgo, nel dicembre 2018, Angela Merkel l’aveva personalmente imposta, presentandola come una personalità affidabile e pragmatica, e dunque come quanto di più simile a sé, a scapito del veemente Friedrich Merz: convinto sostenitore, quest’ultimo, del dialogo con l’elettorato moderato fuggito verso destra, laddove per la Cancelliera ogni ammiccamento con l’estremismo nostalgico-bruno equivale alla violazione di un tabù.

Esattamente il nodo politico-ideologico (con implicazioni storico-morali in Germania assai sentite) che ha fatto scoppiare lo psicodramma turingiano e rivelato la debolezza strutturale della leadership di AKK: prima, alle elezioni regionali dell’ottobre 2019, il tracollo elettorale della Cdu (al minimo storico col 21%) e l’umiliante sorpasso ad opera dei nazional-populisti dell’Afd (22%); poi, nei giorni scorsi, un presidente di Land, il liberale Thomas Kemmerich, sostenuto dai cristiano-popolari, eletto grazie al sostegno determinante dell’estrema destra e subito costretto alle dimissioni. Ma solo perché è personalmente intervenuta la Merkel, con la risolutezza che la sua delfina ha dimostrato di non possedere.

Si dice che un simile caos potrebbe far traballare persino la Grande Coalizione a Berlino. Di sicuro sta facendo fibrillare la Cdu, dove è subito ripartita la corsa a chi ne prenderà la guida. Ma il punto interessante di questa vicenda, andando oltre la Germania, la cronaca e la vita interna di partito, è a ben vedere un altro: la fragilità crescente delle leadership contemporanee (quelle democratiche, perché quelle autocratiche invece se la passano benissimo). Cui si lega un altro problema: la difficoltà, dopo l’esperienza di un grande leader, a trovare qualcuno che ne raccolga il testimone con la stessa determinazione (anche se magari con altre idee e altro stile). 

Tale fragilità viene spesso imputata al cambiamento delle regole, in primis quelle che governano la comunicazione e il rapporto con gli elettorati: nell’epoca dell’immagine e dell’istantaneità servono ormai capi politici che parlino molto dicendo poco, persuasivi più che convincenti, veloci più che riflessivi. Anche perché nel frattempo si è invertito il rapporto col popolo: un tempo il leader ambiva a guidarlo verso una qualche mèta, rappresentando per esso un esempio virtuoso da seguire, oggi si limita a dare voce ai suoi istinti o malumori, dai quali non nascono riforme o progetti ma solo un perpetuo risentimento sociale.

Un capo prima era tale perché era diverso, anche nelle qualità personali, da chi lo riconosceva in questo ruolo. Oggi deve essere (a apparire) il più eguale possibile a coloro che rappresenta: nel parlare come nell’agire. Sembra il massimo della democrazia, in realtà è un appiattimento che finisce per renderlo una figura priva d’autorevolezza, dunque intercambiabile: oggi tu, domani io, dopodomani il primo che passa. 

Stiamo ovviamente drammatizzando (e forse banalizzando). Ma l’esperienza recente di molte democrazie conferma l’ascesa di leader che vengono politicamente dal nulla o da carriere anonime; che irrompono sulla scena intenzionati a sbaragliare l’intero sistema (la politica dell’anti-politica); o che capitalizzano in politica la popolarità conquistata in altri ambiti di attività.

Resistono per fortuna le trafile tradizionali, il che significa raggiungere il vertice della politica (e del potere) solo dopo aver scalato tutti i gradini intermedi. Ma anche in questo caso qualcosa di radicalmente nuovo sembra intervenuto. Innanzitutto colpisce la contrazione temporale delle leadership, il che inevitabilmente incide sulla stabilità e capacità decisionale dei regimi democratici. Un capo di partito o di governo, anche quando gode di un grande consenso, tende oggi ad avere una carriera politica, magari intensa, ma breve. Cicli politici duraturi come quelli che nel recente passato hanno avuto per protagonisti Toni Blair, Helmut Kohl, Felipe González, Silvio Berlusconi, Margaret Thatcher o François Mitterand, sono ormai un ricordo. Le leadership odierne, molto condizionate da umori popolari sempre più instabili e imprevedibili, essendo venuti gli ancoraggi sociali dati un tempo dalle ideologie e dalle credenze religiose, tendono a durare sempre meno. Si sale al potere e si scende dal potere con estrema velocità. E stupisce come ci siano leader (l’Italia ne offre buoni esempi) che raggiunto il picco della popolarità nemmeno si rendono conto che è già cominciato il loro declino. 

Colpisce poi, e anch’essa pare una novità, quella che potremmo definire la deriva narcisistica dell’arte del comando. Per carità, anche i leader democratici del passato apprezzavano l’adulazione e il compiacimento dei seguaci, e le attenzioni loro riservate sul piano personale (senza però che venisse mai rotto il velo della discrezione). Ma soprattutto si preoccupavano di essere stimati e riconosciuti per ciò che politicamente rappresentavano e sostenevano, non per ciò che erano come persone private. Ne consegue che abbiamo oggi leader che vogliono solo piacere al prossimo e per questo tendono ad assecondarlo; che non aspirano ad essere convincenti sul piano dei programmi, ma seducenti sul piano emotivo, esattamente come capita agli uomini di spettacolo col loro pubblico. Questa potenziale deriva l’aveva già intuita Max Weber, quando già nel 1919 sosteneva che la vanità è il peccato mortale del leader politico e si manifesta quanto la sua legittima aspirazione al potere diviene priva di causa «e si trasforma in un oggetto di autoesaltazione puramente personale».

C’è infine la questione – per tornare alla vicenda di AKK e alla scommessa perduta dalla Merkel – di come un leader forte possa oggi garantire la propria degna successione. I passaggi di consegna al vertice del potere sono sempre complicati, anche nelle democrazie. Un capo politico più è stato carismatico, più tende ad avere eredi nel segno dell’ordinarietà. Dopo De Gaulle, è venuto Pompidou: umanista coltissimo e bon vivant, ma senza l’aura del comandante in capo. Alla Thatcher è seguito l’incolore John Major. Ma nell’Europa di oggi si vede un problema nuovo: l’incapacità crescente della sua classe politica a misurarsi con le sfide e scommesse di un mondo nel quale pure sta accadendo di tutto; quasi che essa si preoccupi, più che di affrontarle e risolverle, di schivarle, di ricondurle ad una dimensione per quanto possibile amministrativa e burocratica, cioè di spoliticizzarle, ovvero di trattarle in una chiave puramente moralistica e predicatoria: si tratti dell’immigrazione, dei cambiamenti climatici, dell’insorgenza populista o dei conflitti armati ai confini del continente.

Quel che nessuno più ricorda è che un leader politico autentico può forgiarsi solo affrontando i contesti difficili e rischiosi, misurandosi i grandi cambiamenti o con gli imprevisti della storia, come peraltro mostra proprio l’esempio della Merkel, plasmatasi nella visione e nel carattere mentre ad Est implodeva il comunismo e si apriva la sfida del ritorno alla libertà. Verrebbe da dire, se non fosse una conclusione a rischio di retorica, che sembra sparito dall’Europa il senso tragico e conflittuale della politica, e questo forse spiega perché essa ormai produca personalità prive di grandi visioni e soprattutto impotenti quando si tratta di affrontare le difficili prove che la storia ci mette continuamente dinnanzi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA