Stabilimenti dismessi e paesi fantasma: i segni lasciati dall'Italia industriale

Stabilimenti dismessi e paesi fantasma: i segni lasciati dall'Italia industriale
di Paolo Di Paolo
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Martedì 23 Luglio 2013, 16:28
Sembrava scomparsa dal paesaggio della narrativa e della saggistica italiana, la fabbrica.

Da qualche anno torna a essere esplorata e raccontata: da “Acciaio” di Silvia Avallone al più recente “La fabbrica del panico” di Stefano Valenti, i romanzieri riaprono un discorso che sembrava interrotto, fermo alla letteratura cosiddetta industriale di metà Novecento, su cui fa ora il punto il volume “Fabbrica di carta” (Laterza, a cura di Giuseppe Lupo). A essere messo in gioco non è solo lo spirito dell’inventore di storie, ma anche quello del reporter: una rinnovata voglia di fare inchiesta dal vero anima lavori come quello di Angelo Ferracuti, “Il costo della vita” (Einaudi), che ricostruisce una tragedia operaia del 1987 e, ancora, di Alessandro Leogrande che torna nella sua Taranto con le pagine intense e documentate di “Fumo sulla città” (Fandango).



Giancarlo Liviano d’Arcangelo in "Invisibile è la tua vera patria" (Il Saggiatore) rivitalizza una forma di reportage narrativo alla Capote e alla Wallace, in cui il proprio stato d’animo, perfino la propria storia personale si intrecciano alla narrazione in presa diretta. Nel suo «reportage dal declino» Liviano individua una serie di fabbriche dismesse, le ombre di un’Italia industriale che è stata come un'enorme promessa mancata. Le acciaierie Ilva di Taranto, la centrale elettronucleare campana sul fiume Garigliano, le miniere di Montevecchio. Che cosa resta? Liviano se lo chiede e lo chiede agli abitanti di quelle zone, cercando di individuare il segno - o la ferita - rimasto nel paesaggio, naturale e umano.



LE FAMIGLIE INDUSTRIALI

Il racconto si affolla di dettagli, l’occhio dell’autore li registra e li dilata, lasciando intendere che la sua scommessa è rendere visibile l’«invisibile» del titolo. Diventa chiaro quando al racconto di luoghi si somma quello di famiglie di industriali come i Crespi, gli Olivetti. Liviano interroga i loro sogni a ritroso, cerca di comprendere il rapporto fra l'ambizione di un progetto e il suo esito effettivo: «L’Olivetti fu un esempio di eccellenza industriale, oltre che di maniacale ricerca d’efficienza meccanica, ossessione innata anche in Camillo Olivetti, il capostipite, sin dall’era pionieristica ai primi del Novecento, e che culminò nel 1966 con la fornitura alla Nasa di una gamma di microcomputer che offrirono il supporto tecnico basilare per la missione Apollo 11».



È affascinante, istruttivo, a volte triste seguire Liviano nelle sue tappe. L’indagine sull’acciaieria Ilva - «spettacolo straniante, lunare e un attimo dopo azteco» - porta dritta verso una frase che riassume brutalmente la “guerra di Taranto”: «Meglio morire di cancro che di fame». «Come se la fabbrica - commenta Liviano - fosse lì da sempre, come se per l’uomo non vi fossero alternative oltre il veleno e la fame, tra vita e ragione economica».



I RISCHI DEL NUCLEARE

E allo stesso modo la centrale di Garigliano - spenta per un guasto nel 1978 e chiusa definitivamente nel 1982 - diventa l’occasione per esplorare ancora una volta le opportunità e i rischi del nucleare. I dati, i freddi numeri riempiono le pagine, ma Liviano li problematizza raccogliendo voci, storie, ricordi. «Non c’è famiglia - spiega una voce di quella zona - tra i miei conoscenti, i compagni di scuola dei miei figli che non abbia subito qualche ecatombe». E la miniera di Montevecchio? Venne chiusa nel 1991: resta una città fantasma «forgiata dalle vicissitudini del tempo, oggi abitata da poche anime, e che ai tempi del suo massimo splendore arrivò a contare circa tremila abitanti».



LA DISNEYLAND FALLITA

La tappa più imprevista del lungo viaggio di Liviano è il parco giochi dismesso del quartiere Eur di Roma. È un capitolo molto bello, quasi un racconto a sé, narrativa pura: l’esplorazione di uno spazio surreale, bloccato, raggelato in un’ipotesi di futuro. Una Disneyland fallita - «carcasse abbandonate di vecchi punti ristoro, gelaterie, rivenditori di hot dog e zucchero filato, che ho creduto di riconoscere dagli scheletri di apparecchiature refrigeranti e dalle caratteristiche di banconi di compensato sfracellato». C’è qualcosa di opprimente, in questa immobilità e in questo sfacelo: Liviano non calca la mano, ma viene da pensare a una grande metafora dell’Italia fin lì attraversata. Un fermo immagine che non lascia aperte molte strade di speranza, ma “Invisibile è la tua vera patria” è un libro importante, necessario - ed è bello che venga da uno scrittore trentenne che sceglie di fare i conti con il presente, di spostare gli occhi dove guardano in pochi.
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