“Donne che fanno testo”, il secondo racconto classificato: “Le dita dell'alba di Rossana Cilli”

Rossana Cilli
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Venerdì 27 Dicembre 2013, 19:57 - Ultimo aggiornamento: 20:12
Pubblichiamo il secondo racconto classificato nel concorso "Donne che fanno testo" del Messaggero: "Le dita dell'alba" di Rossana Cilli.



“Le dita dell'alba”

di Rossana Cilli



Il cielo di febbraio, in quel mattino gelido, era saturo di nuvole rigonfie, d’un colore cupo e metallico. Sembravano sul punto di esplodere e liberare un terribile carico d’acqua, grandine, neve, chissà che. Un tempo senza speranza.



Come don Ferdinando. Era stato imponente, altissimo, le spalle pronte a sostenere il mondo, la testa leonina di chioma bianca e ribelle a incorniciare la fronte alta, solcata da tre rughe orizzontali lunghe, perfettamente parallele, chiusa da due ciuffi candidi, marezzati d’argento, che quasi occultavano gli occhi adesso spenti, ma un tempo guizzanti di brace inquieta, il naso irregolare, troppo grande, venato d’un color violaceo, piazzato come un montarozzo tra le gote grigie, cascanti, cerulee, il collo largo, rivestito di uno strato sottile di cute quasi trasparente, come uno specchio d’acqua arruffato dai capricci del vento, e il mento pronunciato, ora sfrontatamente moltiplicato dalla posizione supina.

Che sarebbe stata la sua per il resto del tempo. Dei tempi. Perché lui era nel sonno eterno e, tuttavia, ancora temibile.



L’addome sporgente, fasciato in un elegante panciotto di pregiata lana inglese, appariva meno proteso, contenuto com’era nel rigido abbraccio di una imponente cassa di rovere, tagliata come un antico sarcofago egizio, e impreziosita da quattro pregevoli maniglie bronzee.

Gli arti, un tempo scattanti e ben torniti, erano invece divenuti troppo secchi, ma anche a loro l’esposizione impietosa veniva risparmiata dal bel vestito scuro in tessuto inglese.



Così don Ferdinando si presentava al saluto dei convenuti, maestoso e autorevole come tutti lo ricordavano prima che la malattia, inesorabile, avesse la meglio su di lui. Intanto, i fattorini si alternavano alla porta consegnando mazzi e corone di fiori, da cui pendevano strisce svolazzanti di moire viola impresse a caratteri d’oro, che il domestico si infilava al braccio come cestini di frutta, prima di allinearli addosso a un muro, mentre con la mano libera cercava in tasca qualche spicciolo di mancia. L’aria era satura di quei miasmi pungenti di fiori e acqua ormai putrida, e qualcuno pensava: ecco è questo l’odore della morte. Dunque, era un giorno cupo, freddo e pesante, adeguato a un funerale. Scandito dal ruggito lugubre e prolungato del cielo, che si mescolava a quel lieve sommesso bisbigliare che culla il dolore con la gentile nenia delle parole di cordoglio. Dovute? Sentite? I presenti, avviliti quel tanto che bastava, non sembravano provare un particolare dolore. Novantotto anni dopotutto sono una bella età, si saranno detti, allora che c’è da piangere? Questa in fondo, è una festa per la vita spintasi ben oltre i limiti normali. Eppure qualcuno mormorava: eh però, non fosse stato per la malattia…



Quando giunse il momento di muovere verso la chiesa, una donna allontanò i presenti con parole garbate, poi chiuse le finestre e accostò le tende lasciando la stanza al buio, pregna solo di quell’odore pungente di fiori che raccontava il fatto avvenuto. Il corteo si formò. La gente era tranquilla, in attesa. Tuttavia zia Carlotta tra tutti appariva davvero inconsolabile, forse perché adesso – malignavano alcuni - le sarebbe toccato di andare via da quel bel casale antico subito fuori del centro abitato, fatto di pietre da taglio rosacee, pesanti, posato in mezzo ad una splendida campagna, tra i giardini di rose, limoni, tamarindi, e i boschetti di querce e nocciole, dove lei aveva trascorso tutta la sua indolente e opaca vita di nipote-nubile-dama-di-compagnia di don Ferdinando per lasciarla ai tre figli. Legittimi, ma assai discutibili eredi. I suoi figli avevano infatti sempre brillato per assenza, ma ora, naturalmente, erano accorsi in lutto stretto al funerale. Recitavano per bene la parte dei bravi figli affranti, malinconicamente seduti uno vicino all’altro, al primo banco in chiesa, mesti, silenziosi, protetti da grandi lenti scure per prudentemente celare occhi asciutti e persi dietro a pensieri lontani. Che tutti però immaginavano. Fosca voleva vendere subito, dividere e darsi alla bella vita. Si concentrava su quel pensiero, mentre le labbra simulavano un Padrenostro; Oscar, invece, voleva trasferirsi in villa con tutta la tribù, in tutto dodici persone, il che significava però dover afferrare l’intera proprietà; ma a lui delle tenute non importava nulla, e contava di lottizzarle e farne un moderno centro residenziale. Matteo, dal canto suo, rivendicava il suo sacrosanto terzo per farne un atelier: si era convinto di essere pittore, anche se una tela da pochi soldi, una volta passata per le sue mani, certamente non valeva più nemmeno quelli. Ma tanto, mentre lui era occupato a riempire tele e tempo, a riempire la pancia ci pensava sua moglie Lucilla, segretaria del notaio. Anche lui presente in chiesa, come tutte le altre autorità del luogo: immancabili al funerale dell’illustre defunto. Solo il notaio suscitava però l’attenzione collettiva; tutti lo osservavano, cercando di capire, dal modo in cui trattava con gli eredi, come il defunto avesse infine disposto per i suoi beni. Era noto, infatti, che il vecchio patriarca aveva depositato un testamento, e che ne aveva dettato il testo al solo notaio, esigendo che, visto l’evidente conflitto di interessi, non fosse presente la segretaria, cioè sua nuora. Va da sé che lei sarebbe stata poi (inutilmente) torturata dal marito Matteo, affinché scoprisse il contenuto della carta: si mormorava che lui, al bieco scopo, l’avesse addirittura spinta tra le braccia del vecchio notaio.



Quei tre figli al “don” erano arrivati tardi, dalla seconda moglie, poiché la prima era morta, ancor giovane, in tragiche circostanze. Dapprima i due maschi Matteo e Oscar, e per ultima Fosca.

Ma Ferdinando era poi inaspettatamente sopravvissuto anche alla bella donna Ester, più giovane di lui di quasi vent’anni. La zia Carlotta, invece, figlia di un fraterno amico di Ferdinando, che era morto fra le sue braccia affidandogliela, di anni ne aveva una settantina. Era dunque una “zia” per modo di dire, tanto che i “nipoti” l’avevano già trasferita mentalmente in una qualche casa di risposo, ovvero un dannato ospizio sotto mentito nome, per mettere subito le mani sulla grande villa, dove l’avevano lasciata sola ad accudire il padre senza mai dirle neppure un misero grazie…



Ma non c’era solo la villa. C’erano terreni, soldi e, si favoleggiava, molto oro. Un futuro roseo…

A parte quel dettaglio del testamento…

Per questo la lussuosa limousine di Ferdinando ancora non muoveva verso la sua ultima dimora, che già Matteo spingeva sua moglie verso il notaio.

«Chiedigli se può combinare per le quattro»

«Di oggi?»

«Ma è una domanda da farsi?»

«Tuo padre è ancora… Insomma, che figura ci facciamo?»

«Insomma? Voi arrivare alla sua età, prima di… ?»

«Va bene, va bene, ora glielo chiedo»

Fosca e Oscar, imbalsamati in una specie di contrattura, guardavano il fratello discutere con Lucilla, da lontano. Lei si accostò al notaio, gli parlò in un orecchio, quindi si girò verso Matteo annuendo. La contrattura dei due si sciolse.

Ma il sollievo durò poco, perché Lucilla subito dopo indicò la zia Carlotta...

Infine il corteo mosse verso il cimitero. Tirava aria di tempesta, ma non solo in cielo. Che, intanto, manteneva la sua promessa. Ecco perché alla fine non solo i figli erano impazienti di calare finalmente il defunto nella sua fossa inzuppata, di fuggire via da tutte quelle tombe lucide di pioggia, dalle frustate d’acqua che colpivano implacabili e dall’inutile lotta contro gli ombrelli, rovesciati senza sosta dalle raffiche di vento.



Mentre le cime grondanti dei cipressi, incurvate all’ingiù, come per cogliere le loro frettolose parole di cordoglio, sembravano ammonirli... Ma dove correte, non lo sapete che toccherà anche a voi? E noi saremo qui, ad aspettarvi. Tutti quanti.

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Il testamento fu aperto quel pomeriggio. Carlotta uscì dallo studio e tornò al casale.

Il giorno dopo si alzò prestissimo, guardò in su da dietro il vetro. Le giovani dita dell’alba rigavano il cielo di rosa. Guardò il paesaggio davanti a sé, uscì incurante del freddo, pochi passi e si voltò a guardare la casa. Quella grande dimora di campagna possedeva un numero considerevole di stanze, cinque sale da bagno così grandi da poterci ballare dentro, una cucina immensa, rifornita d’ogni bene, molti camini grandissimi, una celebre cantina, una biblioteca contenente più di quattromila volumi, un salone delle feste degno di una reggia, il patio, un giardino d’inverno, la voliera, la serra delle rose, l’immenso giardino che lambiva due stalle, un boschetto di querce e i campi coltivati dai quali era diviso da un ruscello spumoso color turchese e un laghetto. Carlotta era distaccata e serena riguardo ai beni del “don”, inclusa quella villa che tanto amava, sia perché avanti con gli anni, sia perché ben consapevole di essere solo un’estranea, nonostante il suo sincero, profondo attaccamento al vecchio. Era schiva Carlotta, timida e poco propensa a darsi al mondo, perciò, per realizzarsi, aveva scelto il mondo di Ferdinando. Curava quella dimora come una vera padrona, curava lui, vedovo e vecchio, come poche mogli avrebbero saputo fare. E non pensava mai ai benefici che avrebbe potuto trarre da quella scelta. Ma ora, mentre impacchettava le sue cose, una domanda quasi involontaria le trafiggeva l’anima. Dunque questa è la legge del sangue… E quella del cuore? Finì di fare i bagagli e uscì. L’indomani i figli trovarono appoggiato sul letto il braccialetto d’oro che il notaio le aveva consegnato il giorno prima.
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