“Donne che fanno testo”: i tre racconti vincitori del concorso di scrittura creativa. Il primo classificato: “La linea azzurra” di Francesca Romana Cicetti

Francesca Romana Cicetti
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Venerdì 27 Dicembre 2013, 19:49 - Ultimo aggiornamento: 28 Dicembre, 18:23
Pubblichiamo i tre racconti vincitori del concorso letterario del Messaggero "Donne che fanno testo". Il primo classificato "La linea azzurra" di Francesca Romana Cicetti.



La Linea azzurra

di Francesca Romana Cicetti



Ti chiami Vittoria Longo. Hai sempre voluto fare il poliziotto.

Sei morta sul campo senza sorpresa e senza grida.

Speri che la tua foto, quella che appenderanno alla parete della centrale, sia venuta bene.

Ora che sei morta sei un po’ incerta. Avresti preferito una luce bianca in fondo al tunnel. Tanto per andare sul sicuro. Invece ci sei solo tu, in questa enorme e minuscola stanza. Ma forse non è una stanza. In verità, lo spazio non esiste. Il tempo non esiste, esiste solo la consapevolezza di non essere scomparsi nel vuoto. Aspetti che qualcuno ti venga a prendere. Un minimo di accoglienza, tanto per essere cortesi. Non chiedi di più.

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Vittoria aprì l’acqua della doccia. Il telefono di suo padre squillò a vuoto, finché una voce metallica invitò freddamente a lasciare un messaggio dopo il segnale acustico.

- Ciao, papà, come va? Volevo solo dirti che sono arrivata. Niente incidenti, niente ritardi, niente disastri nucleari.

Uscita dal bagno, percorse il corridoio buio e largo con il telefono incastrato tra la spalla e l’orecchio, fino all’angolo cottura ritagliato nel salotto. Continuò a parlare, mentre un take away vegetariano si andava raffreddando in un pacchetto abbandonato sul tavolo.

- La città è un buco nel nulla. Sembra che sia famosa per le pecore. Che razza di posto è famoso per le pecore? Ma insomma, ci sono la luce elettrica e l’acqua corrente... comunque più di quanto sperassi.

Aprì il pacchetto e osservò distrattamente l’hamburger di soia. Il soggiorno era spoglio, con scatoloni accantonati negli angoli e teli ancora da sollevare. Le finestre erano chiuse, le serrande abbassate. Silenziosamente, Vittoria tornò verso la stanza da bagno.

- Sto per andare a conoscere la nuova squadra, pa’. Richiamami quando senti il messaggio. Ti voglio bene.

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Riagganciò, e lanciò il cellulare sul pavimento. Sebbene l’acqua scorresse flebilmente, la stanza si saturò immediatamente di vapore. Lei guardò di sfuggita nello specchio la propria sagoma appannata, poi si voltò le spalle e riprese a ignorarsi.

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Nella stanza degli agenti, caddero su di lei alcune paia di occhi vacui. Due a mandorla. Un nanetto cinese o qualcosa del genere. Giapponese vietnamita coreano mongolo. Una di queste.

Convenevoli zero.

- Si può sapere come vi chiamate?

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Il cinese disse di chiamarsi “agente E”.

- Che razza di nome è?

- Il mio, commissario.

- Non esiste un nome così. Trovatene uno migliore.

Nella stanza dal soffitto basso si ammassavano numerose scrivanie, quasi tutte disabitate. Non avrebbe avuto un ufficio, ma un piccolo separé sotto una finestra, e questo era quanto di meglio potesse sperare. Un elenco di nomi le ronzava nelle orecchie, ma Vittoria non stava davvero ad ascoltare. L’ispettore era un tipo di campagna sui trenta, ma sembrava frequentare ancora alle scuole superiori. Soleri, o qualcosa di simile. Gli altri chissà.

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- Io non vi piaccio.

Li osservò vacuamente, con lo stesso interesse che avrebbe meritato un pesce rosso. Nessuno la contraddisse.

- Non vi piace una donna come capo... su questo ci siamo. Posso vedere il vostro sessismo straripare da tutti i pori.

Ancora nessuna replica.

- Ma non importa. Ci sono abituata. Voi vi abituerete. Mi chiamo Vittoria Longo e sono il nuovo commissario.



Hai già iniziato a farti amare?

- Non devono amarmi, devono essere bravi agenti.

- Vitto, ascoltami. Potrebbe essere un’occasione di crescita

- Molto divertente.

- Dico sul serio. Dovresti solo cercare di essere meno...

- Meno cosa, pa’?

- Rompipalle.

Silenzio. Suo padre aveva ragione, ma era una pessima idea lasciarglielo capire. Con la mano libera dalla cornetta, selezionò nella valigia gli abiti per il giorno dopo. Non si era ancora rassegnata a spostarli nei cassetti. C’era tempo.

- Uno dice di chiamarsi ”E”. Che razza di nome sarebbe?

- Da cinese. In Cina ti saresti chiamata Zu, Zen, Li... E che ne dici di Chi? O Chang? O Pu?

- Pa’...

- Anche questo, sì.

- No, volevo dire... pa’, mi manchi.

- Hai bevuto?

- Molto spiritoso.

- Scherzavo. Mi manchi anche tu, piccola.

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Non sapeva da quanto stesse dormendo. Un’ora, forse due. Poco. Insonnia. La telefonata la fece sobbalzare...

- Commissario, sono l’ispettore Soleri. Dormiva?

- No, giocavo a golf... Cosa c’è?

- Un’emergenza. Passo a prenderla in centrale tra un quarto d’ora.

Vittoria riattaccò senza salutare. Si sentì sollevata all’idea di evitare l’ufficio, di aver subito un caso su cui lavorare. Riuscì a ignorare gli sguardi lungo la strada verso la centrale. Sei la novità. La ragazza venuta dalla capitale a ficcare il naso. Presto o tardi si stancheranno di te, avranno altro a cui pensare. Presto o tardi.

Soleri era già nell’auto, al riparo dalla pioggia che cadeva sin dall’alba. Un sorriso tirato.

- Aggiornami - disse Vittoria, montando nell’auto.

- Buongiorno anche a lei.

- Si, buongiorno. Aggiornami.

L'altro mise in moto con l’espressione condiscendente di chi conosce tutto della vita.

- Una bambina scomparsa. Presumibilmente rapita dal cortile della scuola prima che suonasse la campanella d’entrata. Sara Vitale, otto anni. La famiglia ci aspetta.

Ammiccò con la sua aria da quarterback, poi risprofondò nel suo silenzio. La radio suonava un pezzo rock.

Nella zona della scuola non pioveva più. Cielo bianco, nuvole compatte. Alcune altalene salutarono il loro arrivo ondeggiando ritmicamente al vento.

- O mio dio, o mio dio...

- Mi dispiace, signora Vitale. Faremo il possibile.

Cos’altro puoi dire a una madre che non trova sua figlia? Le diedero la fotografia della bambina. Biondina, sdentata. Indossava un cappotto verde scuro, disse la mamma. Fate in fretta, disse la mamma. Ritrovatela, disse la mamma.

Vittoria si guardò intorno. Gli altri bambini erano stati mandati a casa, il cortile era spoglio e tetro. Il muro di cinta era affrescato da disegni realizzati coi gessetti colorati, che si erano sciolti mestamente sotto la pioggia.

- Da quanto è finito il temporale? - domandò Vittoria.

- Un paio d’ore, su per giù - le rispose un volontario

- E da quanto è scomparsa la bambina?

- Un’ora e mezza circa.

Cercò con lo sguardo la maestra che piagnucolava in un angolo.

- Quei murales... Quando è concesso ai bambini di disegnarli?

- Durante l’intervallo - pigolò l’altra.

- Quindi quelli che vedo risalgono a ieri?

- S... sì.

- Sara disegna spesso insieme agli altri?

- Sempre. Ama i gessetti. Ne tiene sempre qualcuno in tasca.

Sul muro casette, alberelli, sagome di bimbi dai contorni pasticciati... dei disegni del giorno precedente erano rimaste solo scie colorate. Ma ecco una linea, una sola... Azzurra, integra, perfetta.

La seguì con lo sguardo lungo il muro, finché non scomparve.

Si parò di fronte ai suoi colleghi.

- La bambina è ancora qui.

- Cosa? Il questore, in gran tiro, la squadrò.

- Quando si è sentita in pericolo, ha indicato la strada per salvarla con una scia di gesso. Dobbiamo solo seguirla.

- Con tutto il rispetto, abbiamo controllato e ricontrollato.

- Vi dico che è qui. E’ nella scuola, da qualche parte.

La guardarono scettici. Femmine, donnette. Nessuno si mosse.

Fanculo i poliziotti. Fanculo tutti. Bastava seguire la linea azzurra. Lo avrebbe fatto da sola.

La seguì fin dentro la scuola.

Freddo. Vento. Azzurro.

Un corridoio. Una porticina. Scale buie.

Buio. Azzurro.

Scese. La radio sulla cintura vibrava. Non rispose.

In fondo alle scale un’altra porta. Aprì lentamente. Strinse in pugno la pistola. Nessuno... Tranne lei. Distesa sul pavimento.

- Ti porto via. Andrà tutto bene, lo prometto.

Aveva la pistola in mano, ma non lo sentì arrivare. Non sentì i suoi passi, né il respiro affannoso alle sue spalle, né il dolore, né la fragilità del suo corpo mentre si spegneva. Quando lui sparò, vide svanire pian piano l’immagine di Sara. Percepì solo la curiosa consapevolezza di essere appena stata uccisa.

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Ti chiami Vittoria Longo. Sei morta sul campo seguendo una linea azzurra. Ora aspetti che qualcuno ti venga a prendere. Un minimo di accoglienza, tanto per essere cortesi.

Poi, d’improvviso, non ti serve più. Tu sai cosa fare. Sai già ogni cosa.

E ti metti in cammino.
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