Shalabayeva, condannati giudice e poliziotti: «Fu sequestro di persona». Gli imputati: «È un'ingiustizia»

Shalabayeva, condannati giudice e poliziotti: «Fu sequestro di persona». Gli imputati: «È un'ingiustizia»
PERUGIA - Dopo quasi otto ore di camera di consiglio, il collegio presieduto dal giudice Giuseppe Narducci ha condannato l'ex capo della squadra mobile di Roma, Renato...

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PERUGIA - Dopo quasi otto ore di camera di consiglio, il collegio presieduto dal giudice Giuseppe Narducci ha condannato l'ex capo della squadra mobile di Roma, Renato Cortese, l'ex dirigente dell'ufficio immigrazione, Maurizio Improta, il giudice di Pace, Stefania Lavore,  il funzionario della squadra mobile romana, Francesco Stampacchia, due agenti dell'ufficio immigrazione, Vincenzo Tramma e Stefano Leoni, e l'allora dirigente della sezione criminalità organizzata della squadra mobile di Roma, Luca Armeni per la vicenda dell'espulsione dall'Italia, nel 2013, di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov e della sua bambina. 


Il tribunale ha condannato con l'accusa di sequestro di persona e alcuni capi di imputazione di falso ideologico Cortese, Improta, Stampacchia e Armeni a cinque anni di reclusione e l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Tre anni e sei mesi a Leoni e 4 anni a Tramma, con cinque anni di interdizione, più 2 anni e sei mesi (con uguale periodo di interdizione) a Stefania Lavore. Per tutti, pagamento delle spese processuali, con il risarcimento del danno alle parti civili da decidersi in sede civile.
Tutti gli imputati erano presenti in aula e avevano sempre rivendicato la correttezza del loro operato. Dopo la lettura dei dispositivo, c'è chi è scoppiato in lacrime e chi, come Maurizio Improta, ha gridato «all'ingiustizia», per una sentenza che ha disposto pene ben più pesanti di quelle richieste nell'ultima udienza dal pubblico ministero Massimo Casucci. 


Finisce così il primo grado del processo, con gli avvocati che hanno già annunciato di attendere le motivazioni per proporre appello. Tutto iniziò la notte tra il 28 e 29 maggio 2013, quando Alma Shalabayeva e la figlia furono prelevate dalla polizia nella loro abitazione di Casalpalocco. Le forze dell'ordine cercavano il marito, il dissidente kazako Muktar Ablyazov, ma alla donna venne contestata l'accusa di possesso di un passaporto falso. Due giorni dopo venne firmata l'esplusione e furono rimpatriate. Una vicenda che sollevò polemiche e che portò nel luglio dello stesso anno alle dimissioni del capo di gabinetto del ministero dell'Interno Giuseppe Procaccini. Non passò invece la mozione di sfiducia per l'allora capo del Viminale Angelino Alfano. La donna e la figlia sono poi tornate in Italia e a Shalabayeva nell'aprile 2014 è stato riconosciuto l'asilo politico. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero