Roma, fattore Mourinho: gestione della rosa e preparazione. Così si è riacceso lo Special One

Roma, fattore Mourinho: gestione della rosa e preparazione. Così si è riacceso lo Special One
È arrivato a undici semifinali europee, e con sei squadre diverse: come lui nessuno mai. È primo in classifica davanti a due allenatori di un certo spessore, due...

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È arrivato a undici semifinali europee, e con sei squadre diverse: come lui nessuno mai. È primo in classifica davanti a due allenatori di un certo spessore, due barbari non privi d'ingegno come Alex Ferguson e Jupp Heynckes, rimasti fermi, per così dire, a 10 semifinali, mentre Ancelotti, Guardiola e Trapattoni sono a quota 9. È il drago indiscusso dei quarti di finale, visto che li ha sempre superati, 11 volte su 11. Sta per affrontare l'undicesima in carriera (8 in Champions) contro il Leicester, ma la prima semifinale europea non si scorda mai. José Mourinho la giocò 19 anni fa col suo Porto, appena quarantenne, ancora nero di capelli e semisconosciuto al grande pubblico, contro la Lazio di Mancini: all'andata già tutto risolto con un 4-1 che fece epoca. José verso il 90' si permise lo sberleffo di togliere il pallone dalle mani di Castroman che effettuava una rimessa, la prima grande mourinhata che si ricordi.

Una stella

Seguì sua logica squalifica per il ritorno, ma intanto era nata una stella, della panchina e del firmamento mediatico: il Porto vinse quella Coppa Uefa e la Champions l'anno successivo. Anche se c'è ben poco di mediatico, e molto dell'allenatore di valore, nel curriculum europeo di Mourinho, 11 semifinali raggiunte in 20 stagioni, anche se quelle portate a termine sono 17 (tre esoneri autunnali: due al Chelsea e uno al Manutd). Semplicemente, quando c'è aria di coppa e di knockout phase come dicono gli inglesi, di eliminazione diretta, José dà il meglio. È il suo elemento, il corpo a corpo. Dategli un avversario davanti, e lui troverà il modo di fiaccarlo e di smontarlo. I 180 minuti della doppia sfida sono in questo senso il suo terreno ideale, perché può anche essere sorpreso la prima volta, ed è raro, ma nella partita di ritorno è difficile che perdoni: ha assunto troppe informazioni, sui rivali e sulla propria squadra, per sbagliare strategie. Una volta gli abbiamo visto sbriciolare i nervi del Psg in un quarto di Champions 2014, col suo Chelsea: 1-3 all'andata, poi crescendo rossiniano a Stamford Bridge, con partenza tenue e arrampicata progressiva fino al 2-0, con gol addirittura di Demba Ba («Ho avuto culo», si schernì José). Ancora a Stamford Bridge, con l'Inter nel 2010, si mangiò il suo ex Chelsea e Ancelotti, con la mossa tattica a sorpresa del 4-2-3-1, Eto'o e Pandev esterni, che poi fu il seme del Triplete.

Tante altre volte ha dominato l'avversario psicologicamente, prima ancora che sul campo, e l'ultima dimostrazione c'è stata col Bodø: una settimana di gelidi silenzi, dopo la baruffa negli spogliatoi in Norvegia che intanto aveva eliminato l'allenatore avversario (uno bravo a guidare la squadra in campo: meglio non averlo tra i piedi all'Olimpico), nessuna polemica nemmeno per sbaglio, e intanto preparava la squadra e covava la mossa decisiva di Zaniolo, anzi l'aveva progettata da tempo, e proprio per quella partita. Ha avuto ragione su tutto, come spesso gli è capitato in frangenti simili. Non per fortuna, o per talento mediatico, si portano a casa 11 semifinali, e con sei club diversi: Porto, Chelsea, Inter, Real Madrid, Manchester United e Roma. L'ultima, in un Olimpico che è ormai diventato un Colosseo in amore, uno spettacolo di stupefacente bellezza, una perla dell'Europa del calcio. Il cui ideatore, impresario e attore protagonista, tanto per cambiare, si chiama José.

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Il Messaggero