Sotto le luci del Santiago Bernabéu, a diecimila chilometri di distanza dal legittimo campo che doveva ospitarla, il Monumental di Buenos Aires, strappata alla violenza e...
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Seppure in una partita sterilizzata, alla fine hanno vinto le emozioni, abbiamo sentito fischiare i palloni quando entrano in porta (cit. Gigi Radice), ma non abbiamo visto del buon calcio, piuttosto delle giocate elementari: il gol del Boca Juniors è arrivato su contropiede e due errori, quasi uno scambio di favori per come il River Plate si era presentato in area. Anche il pareggio di Pratto è figlio dell'immobilità della difesa del Boca che si fa riprendere ancora, fino a che non arrivano Quintero e poi Martinez. Sono mancate le grandi giocate e i sistemi di gioco, meglio quello del River, abbiamo visto un calcio bambino, contratto e nervoso, che fa dire: molto rumore per nulla. Con l'aggiunta di un arbitraggio surreale, Andrés Cunha non ha visto un rigore e si è inventato delle risposte da realismo magico in almeno altre occasioni. Quattro convocazioni, due partite, un uragano, degli scontri assurdi, il salto dell'Atlantico, i supplementari e poco calcio. Più parole che pallone. Più fuori che dentro il campo. Alla fine la Superfinal si è trasformata in un apologo di tutti i problemi del calcio argentino. Tra polemiche, attesa e noia, palloni alla viva il parroco, un ping pong senza il pragmatismo maoista, ha vinto lo sfinimento. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero