Il soggetto non perde appeal (viene dal Pigmalione di George Bernard Shaw). Tutti ricordano, di My Fair Lady, la versione cinematografica del 1964 firmata da George Cukor, con Rex...
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Un sogno. My fair Lady sa offrire alla gente, in tempo di crisi, orizzonti lussuosi, costumi fatti per l’evasione romantica, contesti hollywoodiani. Proprio come, per il “suo” Sistina, Pietro Garinei pretese fino all’ultimo. Eliza-Belvedere, nelle scene iniziali, vende violette ai passanti con una pesante calata catanese: deve apparire stradaiola e persino nemica dell’acqua e del sapone. Poi Higgins-Ward comincia ad ottenere da lei, allieva per scommessa, i primi risultati linguistico-prossemici. In scena si canta La pioggia in Spagna bagna la campagna e l’attrice torna ad essere una bella creatura, indossa un abito dietro l’altro, uno più bello dell'altro. Naturale che il suo Pigmalione, benché refrattario al matrimonio, finisca per innamorarsi della dama diversissima dalla pischella musosporco che smoccolava in dialetto. Farnese è, come nella precedente edizione Aldo Ralli, il perfetto padre di Eliza, tratto british, amore per l’alcol e gaiezza da taverna uniti alla disinvolta amoralità del genitore capace di “vendere" la figlia al professore per cinque sterline e in aggiunta ricevere in sorte una pingue eredità. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero