Sabrina Impacciatore tra cinema e sociale: «In Italia la parola chiave è discriminazione»

L'attrice Sabrina Impacciatore
«Invidio gli attori maschi, che possono interpretare ruoli anche molto complessi, violenti, cosa molto poco diffusa per noi donne». Ha esordito così, ieri sera,...

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«Invidio gli attori maschi, che possono interpretare ruoli anche molto complessi, violenti, cosa molto poco diffusa per noi donne». Ha esordito così, ieri sera, Sabrina Impacciatore, ospite della quarta e penultima serata di Fare Critica, il festival dedicato alla critica cinematografica e teatrale diretto da Gianlorenzo Franzì. L’attrice, che ha lavorato per i più importanti registi alternando ruoli comici a quelli drammatici, ha proseguito il discorso iniziato dalla giornalista Cristiana Paternò sull’impoverimento culturale del nostro paese che è anche la causa della crisi della critica cinematografica. D’altronde, il maschilismo imperante della nostra società non è altro che la dimostrazione di una decadenza culturale, «una società che concepisce le donne come oggetti di arredamento con una scadenza, è una società impoverita». «Il nostro è un paese la cui parola chiave è discriminazione. Viviamo in una cultura endemicamente maschilista, dove tutto va molto più a rilento», ha continuato l’attrice, riportando anche l’esempio del movimento americano Metoo. «A Los Angeles - infatti - è avvenuta una vera e propria rivoluzione culturale. In Italia, invece, non è cambiato niente».


Il «grave impoverimento culturale dell’Italia, che è stata a lungo un faro nel mondo», porta ad una decadenza che investe ogni ambito della sfera artistico-culturale, che va dalla recitazione alla critica. «L’assenza di preparazione nel nostro paese non è considerata un disvalore perché non c’è meritocrazia in questa società». Un degrado, questo, che investe soprattutto le giovani generazioni, come ha riportato lo stesso Daniele Luchetti (anche lui ospite della manifestazione) che ogni giorno riscontra queste difficoltà con i suoi studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. «I giovani non solo non conoscono la critica, ma hanno anche tante altre assurde lacune culturali. Quelli che vogliono fare cinema oggi, spesso provengono da studi informatici, e questa è una mutazione culturale enorme. Grazie alle piattaforme come Netflix, i giovani, guardano molti più film che in passato. Però, le piattaforme non sono l’unica realtà e i classici, per esempio, sono del tutto assenti su Netflix. Chi comincia oggi rischia di avere una visione assolutamente ridotta del cinema. Il vero problema è mantenere una certa sapienza culturale di alto livello«. Se queste piattaforme, quindi, da una parte hanno avuto tanti meriti, come quello di innalzare sempre di più il livello delle serie tv - rendendo anche sempre più sottile il confine con il cinema - dall’altra, nel concedere un ruolo primario alla spettacolarizzazione, hanno trascurato altri elementi essenziali del linguaggio audiovisivo. E da qui, è nata anche l’esigenza di un giovane artista come Alessandro Redaelli che, con il suo documentario di osservazione “Funeralopolis - A Suburban Portrait” (2018), ha cercato proprio di annullare la spettacolarizzazione per reintrodurre sullo schermo il «filtro del cinema».  Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero