A Luc Besson le donne piacciono super Da Nikita a Aung San Suu Kyi (The Lady), passando per Giovanna d’Arco e la Natalie Portman ragazzina di Léon, il suo cinema è fatto...
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Il gioco è così scoperto che Lucy, film molto personale malgrado le apparenze, salta i preliminari e va dritto al sodo. In apertura Lucy/Scarlett è costretta da un amico o fidanzato a consegnare una 24 ore sospetta a un gruppo di gangster in un hotel di Taipei. Chi sono Lucy e l’amico? Come sono arrivati lì?
Chi se ne importa, Besson tiene fede alla propria fama di regista high speed, dunque in pochi minuti: il fidanzato crepa; Lucy si prende la paura della sua vita; i banditi, capeggiati dal Choi Min-sik di Old Boy, le cuciono in pancia un paio di chili di una nuova droga; il sacchetto si rompe... e Lucy diventa una superdonna.
Parte l’azione, iniziano le spiegazioni. Mentre Lucy scappa, corre, spara, cerca un ospedale, ammazza un tassista che era solo un po’ lento di riflessi (non si rallenta un film di Besson, diamine!), il professor Morgan Freeman, a Parigi, illustra teorie basate su vecchi luoghi comuni. Noi umani usiamo il 10% del nostro cervello, chissà cosa accadrebbe andando oltre.
Ce lo fa vedere Lucy, che grazie a quella droga potentissima passa al 20, poi al 30, al 40% e oltre (con grandi numeri luminosi sullo schermo tipo partita), mentre il film segue due piste parallele. Da un lato l’azione, dall’altro lo “spiegone”, con immagini stile National Geographic e altre in digitale per il sottotesto “filosofico” (preistoria e ominidi così brutti non si vedevano da anni...).
Poco importa il lato kubrickiano (si fa per dire), Lucy ha dalla sua la sempre splendida Johansson che a differenza di tanti supereroi sa di avere le ore contate. Il suo supercervello infatti sente, capisce, ricorda tutto ma proprio tutto, legge i pensieri di un estraneo solo toccandolo, comanda le onde elettromagnetiche inserendosi nelle telecomunicazioni... Ma sa pure che tutto ha un prezzo e lotta contro il tempo per compiere la sua missione prima di trasformarsi in chissà cosa.
Qui Besson si fa interessante, anche perché la malinconia di Lucy è la sua, e in fondo il film parla del suo cinema. Antiquato e quasi risibile, poi sempre più frenetico, moderno, “drogato” di immagini (e luoghi comuni) digitali. Quanto può durare un regista d’azione? Che prezzo si paga consegnandosi agli effetti speciali? Carax ha risposto una volte per tutte in "Holy Motors". Questa, nel suo stile, è la versione di Besson. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero