«L'amore» di Maurizio Maggiani: alla riscoperta dello spirito rivoluzionario della vita coniugale

«L'amore» di Maurizio Maggiani: alla riscoperta dello spirito rivoluzionario della vita coniugale
Ieri al Maxxi di Roma sono iniziati gli incontri della Fondazione Bellonci, introdotti dal direttore Stefano Petrocchi, con tre vincitori di edizioni passate del Premio Strega....

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Ieri al Maxxi di Roma sono iniziati gli incontri della Fondazione Bellonci, introdotti dal direttore Stefano Petrocchi, con tre vincitori di edizioni passate del Premio Strega. Dopo Maurizio Maggiani, che ha presentanto «L’amore» (Feltrinelli), seguiranno il recital di Tiziano Scarpa il 30 ottobre Ore 19, e l'incontro con Paolo Giordano il 21 novembre alla stessa ora.


Nel suo ultimo libro Maurizio Maggiani riscopre la tenerezza e la quotidianità dell’amore, in una radicalizzazione della peculiarità della sua voce contraddistinta da una certa sapienzialità, da una mistica controcorrente, dal recupero laico e antico delle virtù, della trasparenza dei vissuti estatici, agresti e metropolitani, dell’emozioni positive ancestrali. Ma occorre mettere in guardia dalla interpretazione meramente consolatoria e remissiva di questo recupero. L’amore, come l’intera opera di Maggiani, nascondono una critica aspra della società e uno spirito dirompente, anarchico, rivoluzionario, messo poco in evidenza dalla critica. Maggiani conferma questa impressione. Non si tratta di «una storia di recessione, di introspezione, ma di qualcosa che ci mette al riparo», di un «romanzo fortemente anticapitalistico». E parla  dell’amore che è «dissipazione, anticapitalistico per definizione, non redditizio, una regalia continua, un consumarsi». E si profonde per l’uditorio in una affabulazione sulla epopea breve della Repubblica romana durante il Risorgimento.
 
Ma la rivoluzione di Maggiani è ancor prima di sguardo, che non di azione e di trasformazione. Un anarchismo vissuto poeticamente, brechtiano, anticapitalista ma non aggressivo, che lirizza Bakunin e il socialismo di Proudhon, imparentandosi in qualche modo con l’evangelismo antilibertario di Tolstoj, ma distante dalle derive egoistiche e individualistiche estreme di Max Stirner che pure le smussava e limitava rifiutando interpretazioni eccessive de L’unico e le sue proprietà.  Maggiani ha il candore «pericoloso» dei grandi iniziati, dei fautori delle religioni. Rifiuta però, giustamente, la connotazione di «scrittore degli umili» per rilanciare la presenza di carattere, energia rivoluzionaria, fermezza dei suoi personaggi. Quella sapienza, e le sue riscoperte, riconsegne, restituzioni, che scuotono la società dalle fondamenta, sono interiori ancor prima che socio-politiche o economiche. E in questa interiorizzazione sta l’anarchismo vero, con il suo risvolto mistico necessario in quanto, criticando il capitalismo, si pone in una prospettiva di nobile pauperismo, di riscoperta dello spirito, con qualche adesione al Trattato del Ribelle di Ernst Jünger, all’idea del bosco dove il Ribelle pratica la sua resistenza imparando a sconfiggere la più grande paura che tiene soggiogati, quella della morte,  trovando un compromesso tra il rifugio della cittadella interiore e l’accanimento esterno del sabotaggio dello Stato e dell’ordine gerarchico socio-politico.

Il Ribelle che ha davanti l’immagine del Titanic, emblema della catastrofe del capitalismo e dei comfort, del Leviatano che porta tutti ad affondare uccidendo la libertà. E’ questa, a parte le diverse connotazioni ideologiche rispetto a Jünger, la cifra dell’autore de Il coraggio del pettirosso. Dal momento che la dialettica sofferta nasce da un bisogno spirituale, Maggiani tende a creare nel mondo ri-narrato del romanzo la conciliazione dei discordi o meglio la ricomposizione oltre le contraddizioni, la consonanza oltre la lacerazione. Perché la letteratura non descrive per forza la realtà secondo un realismo ingenuo, né un mondo perfetto secondo un idealismo infantile, ma certamente un mondo più profondo, non descrivendo, ma approfondendo, intrecciando realtà e visione, oggettività e speculazione, descrizione a proiezione, attrito e ostacoli della vita e desiderio e aspirazione della mente.

Lo stesso Maggiani ha praticato questa anarchia, rinunciando, nel 1991 al posto fisso avuto dopo avere cambiato molti lavori in epoche diverse. Racconta di come era spaventato per la prima volta in vita sua da quegli anni ottanta fatti di solitudini e abbandoni, segnati dalla sconfitta delle speranze del’68.  «Avevo preso paura di un naufragio, di un inabissarsi lento e dolce, nessuno mi cercava per mettermi in galera, ma era uno sfinimento, ho fatto una cosa orribile ho accettato un posto fisso!». Dura quattro anni la vita da funzionario del comune, poi  trova una casa con un grande terrazzo, dove pensa di ricostruire il mondo contadino della sua infanzia e cerca di vivere solo di scrittura. L’ulivo Beniamino lo ha seguito nei trasferimenti quando ha abbandonato il terrazzo, la vista del tramonto da Genova, andando verso oriente a guardare l’alba, a Borgo Cornacchia, nel mezzo della Romagna, come annunciava alla fine del "Il Romanzo della Nazione" del 2015. Il passaggio a Oriente è stato come morire, come rinascere mentre nel mondo è arrivato «l’autunno dei cuori, della società, della politica, della morale, delle anime».
 
L’amore ci regala una versione idilliaca del matrimonio, nasconde  una critica e una reazione durissima ai nostri «tempi di vergogna e dissoluzione», all’epoca della trivializzazione mediatica, alla deriva della società italiana dopo gli anni ottanta. «Perché non raccontare una storia luminosa? .. quella di due sposi che hanno la singolare certezza di essere uno l’amato dell’altra». E se lo dicono «senza la benché minima impudicizia e prudenza, come se dicessero pane e acqua». Maggiani non ricorda «un romanzo con una storia d’amore felice, forse perché l’amore coniugale è noioso, disdicevole. Nel mio romanzo non c’è una grande tragedia, ma la storia luminosa di un impegno così pesante, oneroso».

E parla con afflato poetico del gesto semplice del preparare il caffè la mattina che diventa esercizio eroico dell’amore delle ore 6.45, con l’antica ricetta del caffè Jacobs, il caffè dei veterani, che sciorina tranquillo e odoroso nella brocca, e la tazza che la Mari si è portata «da un festival musicale e ha serigrafata la frase FINO AL CUORE DELLA RIVOLTA». Madame Bovary o Ritratto di signora sono forse più intriganti, ma esiste pure l’amore felice. Potremmo ricordare il precedente de L’amore coniugale di Alberto Moravia che si provava a demistificare lo stereotipo dell' inautenticità dell’amore coniugale, lui che aveva descritto la crisi della relazionalità ne Gli Indifferenti,  lo stimolo della gelosia, lo slancio della sessualità come mediazione conoscitiva, la sua inefficacia contro il mal di vivere ne La noia, l’energia della libertà e dell’ iniziazione sessuale in Agostino.
 
Maggini focalizza la quotidianità dell’amore, la tenerezza dei giorni senza i dilaniamenti dell’amour fou, dimostrando che lo stesso amor fou può essere vero senza follia, senza impazzimento, con dedizione continua e totale, a partire dalle piccole cose.  Un amore che diventa casa, dimora, condivisione, florilegio di attenzioni, saggezza di vita narrata, ricordata, rivissuta da persone che hanno la vocazione a servire l’amore, toccati dal sacro di questa parola «delicata, frangibile, bestemmiata, vituperata, pervertita». Un uomo ha imparato a dire l’amore, ad approfondirlo, «anni che ci prova, con pazienza, fiducioso, sconfitto. Addio dopo addio, amore dopo amore fino all’amore finale».  
 
C’è un forte, continuo richiamo autobiografico nel libro, confermato nella conversazione al Maxxi.  L’illuminazione del libro nasce da un amore antico di Maggiani, per una donna di nome Saveria Padoan, che diventa il primo amore del protagonista. Maggiani racconta, con accenti comicissimi e inframmezzando anche qualche canzone d’amore, come si era fatto regalare un trench per il compleanno dai genitori al fine di sembrare più figo alla Padoan. Ma gli avevano rifilato un trench di due-tre misure più grandi renendolo ancora più buffo. Nel libro questo primo amore è anche passaggio critico, presa di coscienza sociale, per lo sposo che si riappropria del soprannome della giovinezza: il Fabbro, il figlio del popolo. Annotazione sociologica e pathos si intrecciano in queste pagine.  «Dall’abbaino giunge notizia di una frenesia di scalpiccii e stridolini, la famiglia dei ghiri s’è svegliata …. E gli viene in mente il nome, il nome della Padoan: Saveria».


Lo sposo scrive articoli e manuali per riviste specializzate sulle «grandi macchine utensili, macchine che costruiscono altre macchine». Un lavoro che «a tratti lo riempie di malinconia perché non deve parlare con nessuno e nemmeno toccare niente. Per questa ragione si è trovato un secondo lavoro e compra minerale di zinco raffinato sui mercati mondiali». L’occasione si palesa conoscendo lavoratori bisognosi di zinco, «colti dalla disgrazia di un padrone fallito e rapace». Lo sposo sceglie di vivere una giornata senza lavorare, senza scrivere articoli, senza comprare lo zinco al precario mercato di Windhoek, Namibia per dedicarsi alla sposa Mari vegliandola mentre dorme,  raccogliendo qualche giuggiola,  raccontando il suo passato, delle volte che ha detto amore, le donne che ha avuto nella vita come la Saveria e la Patri, o Anna Magnani di cui si innamora vedendo al cinema Smeraldo Selvaggio è il vento. Nella giovinezza è appartenuto a «un bel gruppo di anarchici» e ha lottato per la «giustizia proletaria» col «cuore straziato dallo stato delle cose».
 
 
 
 
 
 
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Il Messaggero