Interstellar vola alto ma non sempre. Troppi bagagli sulla nave spaziale di Nolan

Interstellar vola alto ma non sempre. Troppi bagagli sulla nave spaziale di Nolan
Dopo tanti film sullo Spazio, eccone finalmente uno sul Tempo. Dopo tanti voli nel buio, ecco un viaggio che ci porta in remote galassie solo per domare la quarta e più...

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Dopo tanti film sullo Spazio, eccone finalmente uno sul Tempo. Dopo tanti voli nel buio, ecco un viaggio che ci porta in remote galassie solo per domare la quarta e più inconoscibile dimensione: quella del Tempo. Anche se Nolan la prende alla larga e apre Interstellar addirittura come un western. Con McConaughey, ex cosmonauta costretto dalla carestia in corso sul pianeta a fare l’agricoltore, che prende al lazo (cioè al computer), come un puledro, un drone smarrito sopra i suoi immensi campi di mais.








È il lato poema cosmico, alla Terrence Malick, che ispira scene di grande fascino ma sottolinea anche i punti deboli di un film ambizioso quanto contraddittorio. Da un lato la forza visionaria che nasce dal voler raffigurare ciò che non si è mai visto. Dall’altro una sceneggiatura laboriosa, a tratti retorica. Centrata affettivamente sulla relazione fra questo Ulisse vedovo, pronto a partire con un pugno di audaci in cerca di pianeti abitabili per salvare l’umanità, e la figlia bambina che resta sulla Terra con il nonno e il fratello. Abbandonata da un padre destinato a invecchiare molto più lentamente di lei, perché un’ora trascorsa in lontane galassie può corrispondere a sette anni sulla Terra.



Così, mentre l’intrepido Cooper (McConaughey) e i suoi compagni esplorano pianeti coperti d’acqua (altra grande scena) o gelidi e desolati, mentre l’Endurance, immensa nave spaziale rotante, li porta in remote galassie attraverso i “wormhole”, scorciatoie stellari che congiungono punti lontanissimi, sulla Terra la piccola Murph cresce, diventa donna (Jessica Chastain), affronta penurie alimentari e tempeste di sabbia, continua a mandare videomessaggi a quel padre sparito nel cosmo.



E intanto Nolan e la sua troupe compiono sforzi formidabili per far volteggiare quella macchina narrativa su cui hanno caricato di tutto. Teorie quantistiche, dialoghi scientifico-barocchi, forse veridici ma impenetrabili ai non specialisti, scene d’azione un po’ ovvie e altre, assai superiori, di grande forza visionaria. Come quella, decisiva, che vede Cooper dibattersi in una specie di tunnel impossibile disegnato da Escher.



Nonché personaggi fragili e strumentali, con poche eccezioni: lo scienziato Michael Caine, sua figlia Anne Hathaway, ma soprattutto il geniale robot Tars, che con quel nome da tassa sui rifiuti è un automa fatto di materiali riciclati, un incrocio tra una caldaia e un aspirapolvere ma pieno di humour e incredibili risorse.



Impossibile non pensare, per contrasto, alla leggerezza, alla semplicità, all’immensa portata poetica e metaforica del geniale Gravity di Alfonso Cuaron. A Nolan non interessa la semplicità, d’accordo. Però «L’amor che move il Sole e le altre stelle» non lo ha scoperto lui. Forse anziché Dylan Thomas, che cita, doveva rileggere Dante. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero