Interstellar vola alto ma non sempre. Troppi bagagli sulla nave spaziale di Nolan

Interstellar vola alto ma non sempre. Troppi bagagli sulla nave spaziale di Nolan
di Fabio Ferzetti
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Giovedì 6 Novembre 2014, 15:56 - Ultimo aggiornamento: 8 Novembre, 22:38
Dopo tanti film sullo Spazio, eccone finalmente uno sul Tempo. Dopo tanti voli nel buio, ecco un viaggio che ci porta in remote galassie solo per domare la quarta e più inconoscibile dimensione: quella del Tempo. Anche se Nolan la prende alla larga e apre Interstellar addirittura come un western. Con McConaughey, ex cosmonauta costretto dalla carestia in corso sul pianeta a fare l’agricoltore, che prende al lazo (cioè al computer), come un puledro, un drone smarrito sopra i suoi immensi campi di mais.







È il lato poema cosmico, alla Terrence Malick, che ispira scene di grande fascino ma sottolinea anche i punti deboli di un film ambizioso quanto contraddittorio. Da un lato la forza visionaria che nasce dal voler raffigurare ciò che non si è mai visto. Dall’altro una sceneggiatura laboriosa, a tratti retorica. Centrata affettivamente sulla relazione fra questo Ulisse vedovo, pronto a partire con un pugno di audaci in cerca di pianeti abitabili per salvare l’umanità, e la figlia bambina che resta sulla Terra con il nonno e il fratello. Abbandonata da un padre destinato a invecchiare molto più lentamente di lei, perché un’ora trascorsa in lontane galassie può corrispondere a sette anni sulla Terra.



Così, mentre l’intrepido Cooper (McConaughey) e i suoi compagni esplorano pianeti coperti d’acqua (altra grande scena) o gelidi e desolati, mentre l’Endurance, immensa nave spaziale rotante, li porta in remote galassie attraverso i “wormhole”, scorciatoie stellari che congiungono punti lontanissimi, sulla Terra la piccola Murph cresce, diventa donna (Jessica Chastain), affronta penurie alimentari e tempeste di sabbia, continua a mandare videomessaggi a quel padre sparito nel cosmo.



E intanto Nolan e la sua troupe compiono sforzi formidabili per far volteggiare quella macchina narrativa su cui hanno caricato di tutto. Teorie quantistiche, dialoghi scientifico-barocchi, forse veridici ma impenetrabili ai non specialisti, scene d’azione un po’ ovvie e altre, assai superiori, di grande forza visionaria. Come quella, decisiva, che vede Cooper dibattersi in una specie di tunnel impossibile disegnato da Escher.



Nonché personaggi fragili e strumentali, con poche eccezioni: lo scienziato Michael Caine, sua figlia Anne Hathaway, ma soprattutto il geniale robot Tars, che con quel nome da tassa sui rifiuti è un automa fatto di materiali riciclati, un incrocio tra una caldaia e un aspirapolvere ma pieno di humour e incredibili risorse.



Impossibile non pensare, per contrasto, alla leggerezza, alla semplicità, all’immensa portata poetica e metaforica del geniale Gravity di Alfonso Cuaron. A Nolan non interessa la semplicità, d’accordo. Però «L’amor che move il Sole e le altre stelle» non lo ha scoperto lui. Forse anziché Dylan Thomas, che cita, doveva rileggere Dante.
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