Il padre: il turco-tedesco Fatih Akin rievoca il genocidio armeno, ma sbaglia tono e protagonista

Il padre: il turco-tedesco Fatih Akin rievoca il genocidio armeno, ma sbaglia tono e protagonista
Cinema contro tv: tre a zero per la tv. E Dio sa quanto ci costa ammetterlo. Eppure è quanto continuavamo a pensare vedendo “Il padre” (in originale “The Cut”, cioè il...

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Cinema contro tv: tre a zero per la tv. E Dio sa quanto ci costa ammetterlo. Eppure è quanto continuavamo a pensare vedendo “Il padre” (in originale “The Cut”, cioè il taglio, la cesura) del regista turco-tedesco Fatih Akin. Che racconta il genocidio degli armeni e le sue conseguenze seguendo la lunga odissea di un armeno sopravvissuto fra il 1915 e il 1924, tra la città di Mardin, in Turchia, e il Nord Dakota, dove il film si conclude.




Mentre in tutto il mondo le grandi serie tv vengono salutate come una delle forme più potenti e creative del cinema contemporaneo, il cinema per le sale continua infatti a produrre filmoni epici armati delle più nobili intenzioni, ma costretti a travasare in una durata di circa due ore vicende, personaggi, ambienti, sentimenti che meriterebbero ben altri sviluppi. Dunque sono destinati a ingolfarsi nei passaggi più o meno obbligati del genere. Anche se diretti da registi di enormi capacità come Akin, l'autore di “La sposa turca”, “Soul Kitchen” e “Ai confini del Paradiso”.



Naturalmente il fatto stesso che un turco racconti il genocidio degli armeni ha un'enorme importanza politica. Ma questo non basta a rendere i suoi personaggi vivi e appassionanti come meriterebbero. Questo Nazaret Manoogian, padre, fabbro e armeno (il Tahar Rahim del “Profeta”, mai meno espressivo di così), attraversa tutte le esperienze canonizzate da mezzo secolo di cinema su guerre e genocidi senza mai dimostrare una vera personalità.



All'inizio ha tutto ciò che si può desiderare, casa, lavoro, famiglia, sicurezza. Poi di colpo si ritrova a spaccare rocce nel deserto, assiste a violenze inaudite, sopravvive lui stesso per puro caso (un turco non ha il cuore di sgozzarlo ma lesiona le sue corde vocali rendendolo muto). Quindi si salva avventurosamente, arriva ad Aleppo e da lì parte per Cuba e poi per gli Usa cercando le sue due figlie gemelle disperse.



Siamo giusti: c'è almeno un momento molto commovente nel film, quello in cui il sopravvissuto scopre il cinema e Charlie Chaplin in una grande piazza di Aleppo. Ma è singolare, e rivelatore, che per iniettare un po' di vera emozione in una storia ancora tutta da raccontare si debba ricorrere a una scena del “Monello”. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero