«All'estero, i sovrintendenti o i direttori artistici dei teatri leggono la musica. In Italia, tranne poche eccezioni, i bilanci». Giorgio Battistelli, compositore...
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«L'orizzonte dei teatri italiani sono i numeri», continua, «la legge Bray e successivamente gli interventi di Franceschini hanno di sicuro regalato un po' di ossigeno alle casse delle Fondazioni, ma hanno spostato l'attenzione sul risanamento del debito, a breve termine. Facendo passare in secondo piano la costruzione di una strategia culturale, sui cui fondare una rinascita, a lungo termine. Il risultato è che le stagioni dei lirici si assomigliano tutte e per sentire qualcosa che è stato creato adesso bisogna andare all'estero».
È solo colpa dei teatri o anche dei compositori?
«La musica non può mai perdere seduzione. È vero: la narrazione deve essere sempre un obiettivo centrale. Il problema della produzione contemporanea però, e della sua divulgazione, non può essere confinato a questo tema. Il discorso è un altro e coinvolge riflessioni più ampie. Perché il pubblico è in grado di soffermarsi anche per 20 minuti a guardare Kandinskij e Rothko, e invece fatica ad ascoltare Schönberg? L'occhio, probabilmente, è più veloce ad apprendere dell'orecchio. Ma è anche vero che sono rare le istituzioni, dalle scuole ai teatri, a occuparsi di stimolare l'ascolto e di fornire gli strumenti per tradurre i codici. C'è un blocco quasi psicologico».
Ma bisognerà pur riempirli i teatri?
«Sì, ma non inseguendo lo star system. Spesso, per le regie, ci si rivolge a registi che fanno titolo. Che danno certezze. Ma i teatri non possono avere soltanto una funzione rassicurante. Dovrebbero essere un traino verso nuove emozioni e nuove conoscenze».
La musica contemporanea, peró, un po' respinge.
«La musica è globale. E l'approccio dovrebbe essere globale, come per tutte le altre arti. Quando una persona va al cinema, va al cinema. Una sera vede Vanzina, una Moretti. Un film piace di più e uno di meno. Per la musica, invece, c'è prevenzione. Se vai a un concerto di Mozart ti poni in un modo e se ascolti Berio in un altro. Pregiudizi. Da superare. Per assurdo la musica contemporanea è quella più vicina a un dj set».
In che modo?
«Parlo di dissonanza. Un tema, oggi, anche un po' antico e superato, ma serve a capire. I dj sono animali creativi che mangiano musica degli altri. Ospitano un diverso. Una dissonanza. E una consonanza. Si tratta dello stesso stratagemma drammaturgico di un compositore. La modernità sta nella miscela».
Per le miscele classiche si è più preparati? C'è più apertura?
«È solo un luogo comune. Secondo uno degli ultimi studi, pubblicato in Giappone, la resistenza e l'attenzione dei ragazzi a un brano di Beethoven, uno dei musicisti più amati al mondo, è di tre minuti: pari alla durata di una canzone su YouTube. Un risultato che dovrebbe far pensare. Le istituzioni e i compositori».
Chi è il compositore oggi?
«È uguale a quello di ieri. Solo che in passato i compositori si confrontavano con i mecenati. Oggi, con gli assessori».
Rapporti con il potere. Tema centrale del suo Riccardo III, in Italia dopo essere stato in sei teatri europei.
«Lo spettacolo è una rappresentazione del potere. In quest'epoca post berlusconiana, il regista, Carsen, ha scelto di ambientare la tragedia in un circo. I politici nell'arena, gli spettatori sugli spalti».
E la sua musica?
«Affreschi sonori. Per una grande partitura. Con sedici solisti, due cori, i bambini. Un'opera visionaria. Bisogna sempre offrire una visione. E una tensione etica».
L'impegno è il leitmotiv delle sue partiture. Puó scegliere gli esempi più calzanti?
«Experimentum Mondi, rappresentata 400 volte nel mondo, è un inno al lavoro, con artigiani che suonano i loro strumenti, dal mestolo del pasticcere alla sega del falegname. Poi Divorzio all'italiana e la legge sul delitto d'onore. E CO2 per la Scala, in occasione dell'Expo, sull'ambiente. L'anno scorso ad Hannover è andata in scena l'opera Le figlie di Lot, con due neri che cercano ospitalità e si rivelano poi angeli. E a marzo ha debuttato Wake, a Birmingham, con la regia di Graham Vick: in un hangar con l'orchestra su 5 tir. E ora, l'ultima, a cui sto ancora lavorando: 7 minuti, da un testo di Stefano Massini. La storia vera di un gruppo di operaie in Francia cui viene chiesto di rinunciare a 7 minuti di pausa pranzo. Tutte d'accordo, pur di conservare il posto di lavoro. Tranne una. Sarà un contralto, una voce scura, che ricorda alle sue amiche che 7 minuti, moltiplicati per una settimana, un mese, un anno, diventano tanto tempo prezioso sottratto alla propria vita. Sì, lo so: sono un utopista». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero