Giorgio Battistelli: «Noi compositori contemporanei, visionari e utopisti»

Riccardo III, musiche di Giorgio Battistelli, regia di Robert Carsen: al Teatro La Fenice fino al 7 luglio
di Simona Antonucci
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Domenica 1 Luglio 2018, 21:42 - Ultimo aggiornamento: 3 Luglio, 21:36

«All'estero, i sovrintendenti o i direttori artistici dei teatri leggono la musica. In Italia, tranne poche eccezioni, i bilanci». Giorgio Battistelli, compositore romano, 65 anni, autore di oltre 30 opere, presenta il suo Riccardo III, alla Fenice di Venezia, dramma di Ian Burton basato sul testo di Shakespeare, proposto nell'allestimento dell'Opera Vlaanderen di Anversa con la regia di Robert Carsen. Tito Ceccherini guida l'Orchestra e il Coro del Teatro La Fenice. Repliche il 3 (diretta alle 19 su Rai3), il 5 e il 7 luglio.

 



«L'orizzonte dei teatri italiani sono i numeri», continua, «la legge Bray e successivamente gli interventi di Franceschini hanno di sicuro regalato un po' di ossigeno alle casse delle Fondazioni, ma hanno spostato l'attenzione sul risanamento del debito, a breve termine. Facendo passare in secondo piano la costruzione di una strategia culturale, sui cui fondare una rinascita, a lungo termine. Il risultato è che le stagioni dei lirici si assomigliano tutte e per sentire qualcosa che è stato creato adesso bisogna andare all'estero».

È solo colpa dei teatri o anche dei compositori?
«La musica non può mai perdere seduzione. È vero: la narrazione deve essere sempre un obiettivo centrale. Il problema della produzione contemporanea però, e della sua divulgazione, non può essere confinato a questo tema. Il discorso è un altro e coinvolge riflessioni più ampie. Perché il pubblico è in grado di soffermarsi anche per 20 minuti a guardare Kandinskij e Rothko, e invece fatica ad ascoltare Schönberg? L'occhio, probabilmente, è più veloce ad apprendere dell'orecchio. Ma è anche vero che sono rare le istituzioni, dalle scuole ai teatri, a occuparsi di stimolare l'ascolto e di fornire gli strumenti per tradurre i codici. C'è un blocco quasi psicologico».

Ma bisognerà pur riempirli i teatri?
«Sì, ma non inseguendo lo star system. Spesso, per le regie, ci si rivolge a registi che fanno titolo. Che danno certezze. Ma i teatri non possono avere soltanto una funzione rassicurante. Dovrebbero essere un traino verso nuove emozioni e nuove conoscenze».

La musica contemporanea, peró, un po' respinge.
«La musica è globale. E l'approccio dovrebbe essere globale, come per tutte le altre arti. Quando una persona va al cinema, va al cinema. Una sera vede Vanzina, una Moretti. Un film piace di più e uno di meno. Per la musica, invece, c'è prevenzione. Se vai a un concerto di Mozart ti poni in un modo e se ascolti Berio in un altro. Pregiudizi. Da superare. Per assurdo la musica contemporanea è quella più vicina a un dj set».

In che modo?
«Parlo di dissonanza. Un tema, oggi, anche un po' antico e superato, ma serve a capire. I dj sono animali creativi che mangiano musica degli altri. Ospitano un diverso. Una dissonanza. E una consonanza. Si tratta dello stesso stratagemma drammaturgico di un compositore. La modernità sta nella miscela».

Per le miscele classiche si è più preparati? C'è più apertura?
«È solo un luogo comune. Secondo uno degli ultimi studi, pubblicato in Giappone, la resistenza e l'attenzione dei ragazzi a un brano di Beethoven, uno dei musicisti più amati al mondo, è di tre minuti: pari alla durata di una canzone su YouTube. Un risultato che dovrebbe far pensare. Le istituzioni e i compositori».

Chi è il compositore oggi?
«È uguale a quello di ieri. Solo che in passato i compositori si confrontavano con i mecenati. Oggi, con gli assessori».

Rapporti con il potere. Tema centrale del suo Riccardo III, in Italia dopo essere stato in sei teatri europei.
«Lo spettacolo è una rappresentazione del potere. In quest'epoca post berlusconiana, il regista, Carsen, ha scelto di ambientare la tragedia in un circo. I politici nell'arena, gli spettatori sugli spalti».

E la sua musica?
«Affreschi sonori. Per una grande partitura. Con sedici solisti, due cori, i bambini. Un'opera visionaria. Bisogna sempre offrire una visione. E una tensione etica».

L'impegno è il leitmotiv delle sue partiture. Puó scegliere gli esempi più calzanti?
«Experimentum Mondi, rappresentata 400 volte nel mondo, è un inno al lavoro, con artigiani che suonano i loro strumenti, dal mestolo del pasticcere alla sega del falegname.
Poi Divorzio all'italiana e la legge sul delitto d'onore. E CO2 per la Scala, in occasione dell'Expo, sull'ambiente. L'anno scorso ad Hannover è andata in scena l'opera Le figlie di Lot, con due neri che cercano ospitalità e si rivelano poi angeli. E a marzo ha debuttato Wake, a Birmingham, con la regia di Graham Vick: in un hangar con l'orchestra su 5 tir. E ora, l'ultima, a cui sto ancora lavorando: 7 minuti, da un testo di Stefano Massini. La storia vera di un gruppo di operaie in Francia cui viene chiesto di rinunciare a 7 minuti di pausa pranzo. Tutte d'accordo, pur di conservare il posto di lavoro. Tranne una. Sarà un contralto, una voce scura, che ricorda alle sue amiche che 7 minuti, moltiplicati per una settimana, un mese, un anno, diventano tanto tempo prezioso sottratto alla propria vita. Sì, lo so: sono un utopista».

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