Un red carpet qui è difficile anche immaginarselo. Soprattutto nel buio di questa rampa che passa sotto al palazzo. Da poco è passata l’ora di pranzo....
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
Tutto il sito - Mese
6,99€ 1 € al mese x 12 mesi
Poi solo 4,99€ invece di 6,99€/mese
oppure
1€ al mese per 6 mesi
Tutto il sito - Anno
79,99€ 9,99 € per 1 anno
Poi solo 49,99€ invece di 79,99€/anno
CONTROLLO
Jeans, camicia scozzese a mezze maniche. In mano ha un trapano. Sta nel suo garage - «dove passa gran parte del tempo», raccontano i conoscenti - ad armeggiare con una moto rossa. Il suo suv nero è parcheggiato davanti alla porta a scorrimento di questa che sembra essere la sua tana, niente a che vedere con il negozio “Toletta per cani” della Magliana. Ci sono gli attrezzi da meccanico e due specchi. In fondo a questo parallelepipedo spunta un soppalco con lo schermo di un computer. È acceso e dal monitor proietta una serie di immagini: sembrano telecamere a circuito chiuso che riprendono vari scorci della zona. Sicurezza? Paranoia?
Il Canaro fa finta di non essere il Canaro. O almeno ci prova. E forse è anche giusto così. Il naso pronunciato riaffiora dalle cronache di un tempo. I denti rovinati raccontano di altre follie. Quartaccio, periferia Ovest della Capitale poco distante da Primavalle, passata alla storia per un altro fattaccio: il rogo dei fratelli Mattei.
Qui una volta c’era l’università romana del crimine, approdo per i tanti diplomati in povertà. Adesso è il luogo ideale per non esistere troppo. E per mimetizzarsi. Nel taccuino finiscono queste dichiarazioni: «Viene a comprare il pane, la mattina: è gentile e normale». «Certo, lo conosciamo anche noi della tabaccheria». È rispettato e ancora giustificato con un’aurea di mitologia un po’ noir: «Quel pugile lo costrinse a reagire, poraccio», spiega un altro conoscente seduto al Gi.lo bar. Tutti si qualificano così. Non si trova uno che dica: sono suo amico. Ma nemmeno nessuno che voglia parlarne male per sfregio.
«Qui ci facciamo tutti i fatti nostri ed è già dura così». La figlia, che all’epoca dell’arresto aveva 5 anni, adesso ha aperto un negozio di abbigliamento. Ma è rimasta a vivere vicino ai genitori, con marito e figli. Lui, Pietro, ormai nonno, è animato da un solo desiderio: essere dimenticato. I presupposti ci sono. Solo tre linee di autobus battono questo quadrante, quando capita. Una lingua di asfalto lunga un chilometro puntellata di alberi. A destra e sinistra una muraglia di case popolari, di un giallo sbiadito con gli infissi rossi e bianchi. Inferriate alle finestre, dietro a cui abbaiano i cani. Le palazzine di destra sono alte due piani, quella a sinistra tre. Per strada cassonetti traboccanti di rifiuti, un vecchio mercato generale chiuso e occupato: ora una sorta di robivecchi. «Certo, che lo conosciamo: è uno tranquillo».
LA ZONA
Gli anziani ondeggiano sui marciapiedi disconnessi, qualche passante chiede sigarette in giro. Rapidi rientrano a casa i lavoratori che vengono qui a pranzo e a cena e per dormire. Senza farsi domande. Come lui. L’ex killer che adesso, dopo un lavoro da portantino per un commercialista, passa le sue giornate nel garage. E poi con la famiglia. Il suo scudo. Di tanto in tanto passano bambini rom che spingono nel passeggino altri bimbi. Pietro, per tutti e per sempre il Canaro, abita qui: via Andersen. Bizzarre la vita e la toponomastica: di fiabesco qui intorno c’è zero. Soprattutto nella storia del suo illustre residente-fantasma. «Aveva un cane all’inizio, ma ora non c’è più», racconta un vicino con l’aria di chi vorrebbe dare un indizio o una suggestione. Il suo cognome è scritto nel campanello di sotto con il pennarello. Risponde la moglie ma sta parlando con un’altra donna: «In questi giorni non ci lasciano in pace». Nemmeno ascolta la domanda. E ributta giù. Di sotto, nel buio dei garage, la porta è stata chiusa, il Suv è dentro. De Negri ha usato una porta interna. Passerà, pure questa, sta pensando «il Canaro che non c’è più».
Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero