Le treccine rasta al vento, l’immancabile copricapo con i colori della bandiera giamaicana in testa e la sua amata ganja: è intorno a questa iconografia che,...
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Nato (povero) a Nine Mile da padre bianco britannico e madre (nera) giamaicana, uno “scandalo” in una società che non tollerava il multiculturalismo, Bob Marley è stato con i suoi poetici brani l’alfiere di una rivoluzione culturale e umanistica che ha restituito dignità (non solo letteraria) agli oppressi di tutta la Terra. Nei suoi versi c’erano la voglia e la speranza di un mondo nuovo e pacificato, naturale conseguenza dell’abbattimento del vecchio, in cui, inevitabilmente, era necessario alzarsi e ribellarsi per i propri diritti.
Insomma, più che una popstar, Marley è stato un vate, un guru ispirato dalla religione, quel rastafarianesimo che predicava il ritorno in Africa e la fuga dall’Occidente, la Babilonia tante volte cantata di cui comunque Bob si è servito per costruire il suo mito. Un mito scandito dall’accattivante ritmo del reggae (una novità per l’Europa, dove il cantante giamaicano si rivelò insieme agli Wailers, il gruppo in cui cantava pure Rita, moglie e madre di tre dei suoi tredici figli) e sancito definitivamente dalla sua scomparsa, arrivata prematuramente, a soli trentasei anni, il 5 maggio del 1981, a causa del cancro.
Da allora, malgrado il severo controllo dei familiari, la leggenda del profeta del reggae ha conosciuto troppo spesso le fameliche strade del business, che, intenzionalmente, hanno esaltato l’idolo Marley e la sua iconografia per oscurarne il messaggio: questo Bob non l’avrebbe voluto. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero