Italia rugby, il capitano Michele Lamaro: «A Cardiff per fare la storia». L'analisi: dall'epica alla normalità. Azzurri al 9° posto nel ranking

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Italia rugby, il capitano Michele Lamaro: «A Cardiff per fare la storia». L'analisi: dall'epica alla normalità. Azzurri al 9° posto nel ranking
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Due risultati utili consecutivi nel Sei Nazioni del rugby con il pronostico non così chiuso per fare il tris: mai successo prima.
«Se è per quello - dice Michele Lamaro, il capitano - già dal minuto dopo il fischio finale all’Olimpico, con Gonzalo (Quesada, il neoct, ndr) e i ragazzi stavamo già pensando a come fare per arrivare là dove non si è ancora spinta alcuna nazionale azzurra: tre risultati utili nello stesso Torneo. Una motivazione formidabile e una grande responsabilità. Di mezzo c’è però il Galles, lo sapete, sabato a casa sua, che darà tutto per evitare l’ultimo posto. Ha perso male con la Francia ieri, ma non vuole dire niente: è una squadra capace di ogni impresa, ha nel Dna ogni elemento che serve. Dovremo studiare anche il più piccolo dettaglio».


Due anni fa l’avete battuto proprio al Principality Stadium.
«Un bel ricordo non fermerà i gallesi».

Da un Mondiale da dimenticare al primo pareggio in Francia e alla vittoria all’Olimpico che mancava da 11 anni: che cosa è cambiato in poche settimane, oltre all’allenatore?
«Se volessimo tagliarla corta, direi che ora siamo più attenti alla difesa».


E se non volessimo?
«Bisogna partire da lontano».


Dal suo debutto in azzurro quattro anni fa, quando la nazionale perdeva sempre?
«Sì, ma nel senso che in questo sport, così collettivo, così duro, così intelligente, così ricco di variabili, non si può individuare un momento preciso tra il prima e il dopo. Ricordate quante partite abbiamo perso per un soffio, per un piccolo dettaglio? Non c’è uno switch, un interruttore, in una squadra di rugby. E’ un processo lungo e complesso. Il valore della nostra prestazione a Lilla (13-13) non sarebbe cambiato di una virgola se il pallone calciato da Paolo (Garbisi, ndr) fosse entrato invece di sbattere sul palo. Invece per i titoli dei giornali sarebbe stata tutta un’altra storia. In realtà c’è solo da lavorare insieme, da sudare, da studiare, da accumulare esperienze perché poi arriva la partita in cui tutto questo processo porta alla vittoria».


Quesada dice che il merito è solo vostro, che lui vi ha giusto convinto del vostro potenziale: è sincero?
«E’ sincero nell’essere modesto. La verità è che quello che combiniamo in campo è il frutto non solo del comportamento di noi azzurri, ma del lavoro del ct e di tutto lo staff, non solo tecnico, della nazionale e anche di ciò che si fa nei club. Gonzalo, poi, è bravo nel coinvolgere tutti perché insieme si dia il massimo. Ed è molto efficace nel preparare non solo il piano strategico per ogni partita, ma anche la battaglia mentale».


Quella che avete vinto sabato resistendo a 24 fasi di attacco degli scozzesi negli ultimi infiniti tre minuti del match?
«Sì, proprio quella».


Secondo le statistiche (possesso palla, territorio, corse, terreno conquistato con i calci) sabato all’Olimpico avrebbe dovuto vincere la Scozia.
«Ecco, in quei numeri non c’è nulla della battaglia mentale che richiede una partita di rugby».


Comunque, a proposito di numeri, 26 placcaggi (record) lei li ha “tirati” agli scozzesi.
«Sì e ne sono contento (Lamaro è sempre in testa in questa classifica del Sei Nazioni, ndr) ma conta di più il totale dei placcaggi effettuati da tutta la squadra (sono 199, ndr) grazie al piano difensivo. E poi siamo stati molto disciplinati concedendo solo 5 penalty, questo sì che è un bel numero».


L’Italia non vinceva a Roma da 11 anni: dov’era lei nel 2013?
«Esattamente lì all’Olimpico, ricordo tutto della partita con l’Irlanda. Avevo 15 anni e, sì, giocavo a rugby, ma allora potevo solo sognare di giocare in nazionale, figuriamoci se potevo pure immaginare un’emozione così forte come quella di sabato, a Roma, la mia città, davanti a tutti quei tifosi che ci sostengono sempre. Beh, sabato notte ho fatto fatica a prendere sonno».


Questa nazionale ottiene buoni risultati continuando a inserire giovani, compresi quelli di formazione non italiana.
«Sì, in effetti ora c’è una base solida composta da un nucleo di giocatori e da un’organizzazione che permette ai giovani di inserirsi bene senza correre il rischio di bruciarsi. Anche chi non è di formazione italiana, detto che il “linguaggio” del rugby professionistico è sempre più universale, trova subito riferimenti. E’ facile “fare gruppo” e così il talento di ognuno si somma subito a quello della squadra senza dovere sentire troppo la pressione».


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