Muore in ospedale dopo due diagnosi errate e un intervento al cervello arrivato troppo tardi. Si profila un caso di malasanità, di «inadempienza professionale»,...
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IL TRASFERIMENTO
I familiari consigliano il trasferimento a Roma. Il 17 marzo viene ricoverato al San Camillo. La Tac eseguita nell'ospedale porta i medici a riconfermare la diagnosi errata dei colleghi molisani. «Il referto Tac» scrivono nella cartella clinica «mette in evidenza metastasi cerebrali in neoplasia primitiva da individuare«. Ma il paziente ha anche una sofferenza respiratoria e visto «il processo infettivo polmonare in corso», dopo i primi tre giorni di degenza in Medicina d'urgenza, viene trasferito a Pneumologia. La diagnosi esatta arriva con una risonanza magnetica, eseguita solo il 24 aprile, dopo 40 giorni di degenza. «Ascessi cerebrali», non metastasi non localizzate. «La mancata esecuzione del percorso di diagnostica differenziale - sottolineano i periti - anche in considerazione del prolungato ricovero del paziente, rappresenta fattispecie di inadempienza professionale e di mancato rispetto delle norme di buona pratica clinica«. Eppure il primo sollecito per effettuare la risonanza era stato firmato da un neurochirurgo il 18 marzo. «L'errore della diagnosi e l'omissione della risonanza da parte dei sanitari di pneumologia, dove il paziente rimase ricoverato oltre un mese prima della corretta prognosi, appare certamente rilevante dal punto di vista causale ai fini del peggioramento della condizione del paziente e del determinismo della morte».
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Il Messaggero